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47. Come i ronin, come il numero degli alberi piantati a Shiga, come il numero atomico dell’argento, simbolo di abbondanza per l’interpretazione angelica.

Ho concluso nel 2023 (a settembre/ottobre, e mi scuso per il ritardo nel comunicarlo) la visita di tutte le 47 prefetture del Giappone. Ciò non vuol dire che abbia visitato tutte le città più importanti o conosciute in esse, ma che ho passato almeno 2 giorni in ognuna di queste prefetture almeno una volta, seguendo i miei hobby e le mie curiosità per ognuna di esse, anche contando il tempo concessomi dai ritmi lavorativi.

Se per ogni articolo ho sempre parlato delle sensazioni, della storia del luogo, degli imprevisti positivi e negativi, in questo articolo, visto che è estremamente complesso rispondere a domande su preferenze, cercherò di fare un riassunto (soprattutto numerico) di ciò che è stata (e il suo significato anche materiale) questa incredibile avventura personale, personalissima.

Il Giappone si divide in varie aree geografiche, sorte di macroregioni. Forse non l’ho mai detto chiaramente in tutti questi anni.

Tohoku (Akita, Aomori, Fukushima, Iwate, Yamagata), Kanto (Chiba, Saitama, Tokyo, Kanagawa, Gunma, Tochigi), Shikoku (Kochi, Ehime, Kagawa, Tokushima), Chugoku (Hiroshima, Okayama, Shimane, Tottori, Yamaguchi), Kansai (Kyoto, Osaka, Hyogo, Mie, Shiga, Wakayama), Hokkaido, Chubu (Aichi, Fukui, Gifu, Ishikawa, Nagano, Shizuoka, Toyama, Yamanashi, Niigata), Kyushu (Fukuoka, Saga, Oita, Kagoshima, Nagasaki, Miyazaki) e Okinawa.

Dovrebbero esserci tutte. Ma per me a volte i loro nomi non coincidono con un ricordo geografico. Ne ho sviluppati di miei, di personali, ricreando una mappa di ricordi che trascende carte, colori e confini.

Ma visto che non sempre si riesce a condividere e trasmettere quanto qualcosa posso colpirci, userò in questo articolo anche qualche numero in più. Ho speso 400.000 yen solo di alberghi, circa 2.800.000 yen di soli Shinkansen (sono quindi esclusi i treni di collegamento regionali quando necessari, i vari traghetti, ecc), più una media di circa 2000 yen a viaggio per souvenir ed entrate a musei.

Ma questi sono i numeri che ci piacciono di meno. Ora arrivano quelli interessanti. Soltanto a piedi ho percorso 3000 km (contando solo i viaggi necessari per visitare tutte le 47 prefetture). Ogni anno degli ultimi 4, togliendo i chilometri in aereo del 2021 per l’Italia, ho una media di circa di 25.000 km, combinando insieme tutti gli spostamenti. Nelle prefetture, durante le mie scampagnate, ho avuto una media di 31 Km al giorno, sempre e solo a piedi.

E a cosa è valso tutto questo, vi chiederete. Con cosa sono tornato a casa dopo ognuno di questi viaggi, dopo aver visto ogni singolo pezzo che macro-compone il Giappone?

Ho visto i 3 giardini più belli di tutta la nazione, i templi shinto e i loro head temples più importanti di tutto lo stato, una ventina di castelli, una quarantina di musei e quasi il doppio di mostre, ho visitato luoghi sperduti, abbandonati dai giapponesi stessi, sperimentato ogni tipologia di meteo e sensazione, conosciuto la pace e la guerra in svariati periodi storici. Ho scalato montagne e colline, percorso crepacci e guadato fiume, ho fatto, saltuariamente, perfino lo speleologo tra stalattiti, stalagmiti, pipistrelli e statue di Buddha. E potrei continuare. Aspetto solo che qualcuno mi offra un contratto per scrivere un libro.

Cosa manca all’appello, ora? Mancano le esperienze di vita “normale”, come assistere al sumo o ad uno spettacolo completo di teatro kabuki. Manca andare a teatro (e magari a vedere la Butterfly dalla parte giusta del mondo). Mancano ancora tante città (Suwa, Iga-Ueno, Matsue, Nagano, Mishima, Toyohashi, Sapporo, Otaru, Biei, Chichibu, Kokura, il mare di Kyoto, le centinaia di isole di Okinawa) e soprattutto lui, il Fuji, che cercherò di affrontare a luglio. Come vedete, non ho fatto ancora nulla. Anzi, forse a scrivere sto anche perdendo tempo…

E se invece pensiamo a cosa manca nella cernita di bellezza a cui ho assitito… Di cosa mi sono dimenticato di parlare? Di loro, le persone. Incontri stupendi (che se avesse avuto più coraggio, tempo e spavalderia) sarebbe potuti essere ancora di più ma che forse sarebbe stati molti di meno se non avessi usato la regola di non prendere mezzi.

Come ovviamente non posso elencare tutte le soddisfazioni che vanno oltre il viaggio stesso. Prima fra tutte sicuramente il fatto che buona parte del contratto a tempo indeterminato che ho firmato a novembre sia grazie al fatto che, a differenza degli altri colleghi, io abbia visitato più luoghi in 4 anni che loro in 30.

Non potete immaginare la contentezza, l’orgoglio dei sensi e il rigoglio del cuore a sentire ciò. I miei sforzi che tornano alla foce. L’energia usata che ritorna al principio. Il tempo investito, il sonno perduto che di colpo si trasformano in oro. E in un oro più prezioso del “loro”…

E questi erano solo i primi 4 round.

La prossima sfida (soprattutto personale) sarà in parte mantenere questo ritmo nazionale ed unirlo, complice il nuovo lavoro, a qualche sortita internazionale (prima fra tutte, Madrid tra qualche settimana). Sicuramente il mio passo decellererà. I giorni festivi certi aumenteranno rispetto agli anni scorsi ma lo farà anche la mole di lavoro soprattutto durante la stagione di picco dei ciliegi. A questo si deve unire la necessità di recuperare i risparmi usati per la mia sussistenza durante i periodi non lavorativi e il trasloco più vicino al luogo di lavoro.

Ciò però non significa che mi fermerò, anzi sto già programmando un calendario per il 2024 in modo da visitare luoghi mai visitati in precedenza, con la possibilità di visitarli, ora, anche con mezzi “più umani”, senza rinunciare all’avventura. Credo di essermelo meritato…

L’Ultimo Strappo, l’Ultima Cucitura (Parte IV): Il Divino dell’Apice

Mi sono regalato del tempo che non avevo e l’ho usato per esplorare qualcosa di più di Oita, altre due città, Beppu (別府) ed Usa (宇佐), la prima consigliata dagli amici, la seconda tappa che già mi ero promesso di visitare per l’importanza storico-religiosa che ricopre, entrambe nella prefettura di Oita, nella parte nord-occidentale.

Il treno che mi porta fino a Beppu, prima tappa, scorre sui binari con un fare che sembra più tranquillo del solito. Una volta arrivato a Beppu, mi compiaccio del fatto che la piccola stazione ha due uscite che più chiare di così non si può; 山口 e 海口 rispettivamente “Yamaguchi” (uscita della montagna) e “umiguchi” (uscita del mare). Impossible sbagliare.

Sentendo nell’aria molte più parole coreane che giapponesi (la maggior parte di studenti e coppie), mi dirigo stupito prima verso la parte montuosa di Beppu. Non molto famosa per le sue attrazioni sciistiche, dalla piana però si nota come una parte dei monti che si rivolge verso la città è stata disboscata in modo da creare quella che sembra una pista da sci. Ma non mi posso spingere così oltre. Mi fermo alle pendici delle prime salite, dove incontro l’Hachiman Asami Shrine (八幡朝美神宮), uno dei templi più importanti della città.

L’incontro è mistico e profondo, anche grazie alla particolarità del tempio, dedicato al dio della guerra (Hachiman): una coppia di canfore sacre che svetta poco dopo il torii principale, racchiudendo al loro interno un altro torii più piccolo.

L’ingresso dell’Asami Hachimangu visto dalla parte opposta della strada
La vista delle due canfore “spose”

Mi muovo costeggiando la parte ovest della città fino ad arrivare al Beppu Park (別府公園), luogo verde e di incontro al centro della città, che ospita al suo interno un epitaffio che ricorda Aburaya Kumahachi (1863-1935), uno dei personaggi storici più importanti per la prefettura, riconosciuto da molti come il padre fondatore della moderna idea del turismo in Giappone. Famosa la sua frase “Never forget the entertainment of travellers” che al pari di un motto viene usato per ravvivare sin dai primi anni del ‘900 la città e la sua offerta turistica, con la costruzione di vari Ryokan, seguita dalla costruzione di alberghi, fermate per gli autobus e tutti quei servizi che avrebbero donato al viaggiatore l’esperienza più completa di Beppu.

Situata di fronte alla stazione, possiamo vedere la statua “volante” di Kumahachi e uno deo simboli di Beppu, ovvero le sue sorgenti termali.
I verdi bambù del Beppu Park

A metà tra il mare e i monti, continuo però a scegliere la parte in salita. Ma ne varrà la pena. Con più caldo del previsto addosso nonostante l’aria di un inoltrato ottobre, arrivo al Butsusharitou (仏舎利塔), un tempio buddhista a forma di cupola che bianco svetta tra la vegetazione ed il colore bruno della casa dall’aria stanca. Il tempio consiste soltanto nella cupola, non visitabile, e 4 statue dorate del Buddha in varie posizione di meditazione, ognuna ripercorrendo una fase del suo cammino di illuminazione. Il tempio è stato costruito nel 1973.

Scendendo, mi fermo, prima di tornare al livello del mare, al Nogichitenmangu (乃木散天満宮), come sempre consacrati a Michizane, divinità che incarna la sapienza e l’insegnamento, edificato nel 1517. La particolarità di questo tempio è lo stile (Nagare-zukuri), insieme al fatto che invece che la solita statua di mucca (simbolo di intelligenza e fortuna nella gravidanza), vi sia quella di un leone, a simboleggiare però gli stessi concetti. Fino a qualche secolo fa, nei precinti del tempio si praticava il sumo in estate.

Una volta tornato in città, è ora dell’esperienza più turistica che la città ha da offrire, ovvero quella dei bagni di sabbia (砂風呂, sunaburo). Si tratta di essersi coperti fino al collo da sabbia bollente (circa 50 gradi), stessa temperatura di alcune acque di onsen. La sensazione che si ha però è completamente diversa da quella che si prova stando a galla nelle acque tranquille, nudi. La sabbia compatta fa penetrare con gentile pesantezza il calore nel corpo, che non è libero come quando immerso nell’acqua, non si può ribellare. A Beppu vi sono centri appositi oppure si può sperimentare questa esperienza in alcuni bagni termali o hotel.

L’ultima tappa di Beppu, la più vicina al mare, è la Beppu Tower che include al suo interno il Beppu Art Museum.

La Beppu Tower, di acciaio grigio e arancione, è stata costruita nel 1957, e dal sesto piano in poi accoglie il museo d’arte della città, che espone i lavori degli artisti della prefettura, ma anche quelli ricevuti in regalo da artisti esterni ad essa o famosi.

Più di ogni altro momento, guardando il mare e le montagne di Oita dalla Beppu Tower, ho compreso la bellezza di ciò che ho compiuto. “Ce l’ho fatta, è finita…”. Solo nel corridoio circolare sospeso nel metallo, mi sono commosso come se avessi vinto una medaglia olimpica, come se fossi l’unico su un podio che io stesso avevo costruito.

Prendo il treno per l’ultima tappa quando ancora ho gli occhi umidi. Mi allontano dal mare per spingermi nell’entroterra della prefettura, più vicino ai confini di Fukuoka, a nord. La tappa finale non poteva che essere Usa (宇佐), sede di uno dei templi più importanti della storia giapponese, l’Usa Jingu (宇佐神宮), head temples di tutti gli Hachimangu della nazione, e secondo di importanza, per molti, solo all’Ise Jingu.

Una volta arrivato in stazione, ancora più piccola di quella di Beppu ma più affollata del previsto, mi serve circa un’ora costeggiando la strada principale per arrivare dalla stazione ai primi edifici rosso accesi dell’Usa Jingu.

Entrata orientale dell’Usa Jingu
Ootori

Usa Jingu consacra tre divinità principali. Il più importante di loro è Hachiman, lo spirito divinizzato dell’imperatore Ojin (il leggendario quindicesimo imperatore del Giappone). È venerato insieme a sua madre, l’imperatrice Jingu, e all’Hime Okami, un nome collettivo per un trio di dee del mare venerate ad Usa fin dai tempi antichi. Secondo i registri del santuario, Ojin, già in veste divina di Hachiman, apparve per la prima volta vicino al monte Ogura nel 571 e si dichiarò protettore del Giappone. Il luogo in cui fu sepolto Hachiman cambiò più volte finché nel 725 non fu scelto un sito sufficientemente grande in cima al monte Ogura e lì fu costruito un santuario, dove riposa fino ad oggi.

Accanto ad esso fu costruito un tempio chiamato Miroku-ji nel 779, rendendolo quello che si ritiene sia il primo tempio-santuario (jingū-ji) di sempre. Il complesso misto risultante, chiamato Usa Hachimangu-ji (宇佐八幡宮寺, Usa Hachiman Shrine Temple), durò oltre un millennio fino al 1868, quando la parte buddista fu rimossa per conformarsi all’Atto di Separazione di Kami e Buddha.

Il tempio affronta, prima della scissione, la parte più difficile della sua storia durante il XVII secolo quando il crescente fervore cristiano porta Otomo a pensare alla distruzione del tempio, al quale si oppone la moglie, altrettanto credente nell’autoctona religione giapponese.

Mi perdo nel verde intenso e nei suoni di ghiaia di passi altrove, quasi non miei. Mi immergo come fosse l’ultima volta, come fosse la prima volta, nonostante qualche umano di troppo nei miei dintorni.

Finestra che sbircia il monte Ogura, dove Hachiman si erse a protettore del Giappone per la prima volta…

A causa della sua origine religiosa mista, una delle feste più importanti del santuario è l’hōjō-e (放生会), originariamente una cerimonia buddista in cui vengono liberati uccelli e pesci in cattività. La cerimonia è accompagnata da danze sacre kagura intese a commemorare le anime dei pesci uccisi dai pescatori durante l’anno precedente, in relazione al culto delle Hime Okami menzionato prima. Questo rito sincretico che fonde buddismo e shintoismo, ora celebrato in molti santuari in tutto il paese, ebbe luogo per la prima volta nell’Usa Jingu.

Edificio che è adibito al Tresure Museum dell’Usa Jingu
Le lanterne sulla via del ritorno…

Sulla via del ritorno, ancora nei sentieri sacri dell’Usa, mi saluta una ragazza. Bella, piena, sorridente, la parte di coscia scoperta tra i collant e la gonna… Inebriato, sovrappensiero forse, non abituato, l’unica cosa che so dire è “ciao” in risposta al suo “ciao”. Nient’altro. Ci passiamo di fianco, ognuno continuando la propria strada nella ghiaia del temp(i)o. Mi lamenterò di me stesso (con me stesso e con gli altri) e della mia inettitudine poco italiana per almeno una settimana. E ancora adesso storco il naso per questa e per tutte le opportunità che mi sono tolto da solo, ancor prima di tentare.

Piccolo deviazione per questo gioiello, il 八十八体の仏様 (Yasohachitai no Hotoke-sama), ovvero “Le 88 rapprentazioni del Buddha”, che consiste come vedete in un rientranza nella montagna sostenuta da evidenti ponteggi. Non è nulla che ricordi un tempio, eccetto la cassette delle offerte e la quasi perfetta conservazione delle statue (cosa che non si direbbe, data la condizione generale del sito)
I red spider lily (Giglio ragno rosso), mai visti così tanti come in queste zone…

Mi allontano velocemente dal tempio per la vergogna. Ma continuo a guardarmi indietro, anche quando il paesaggio cambia, anche quando cambiano le prefetture e la velocità del treno è tornata allo standard degli Shinkansen. Sto tornando a casa. E pur non avendo che il mio zaino, il bagaglio che ho con me è il più pesante che abbiamo mai portato. Sento tutto il potere di Hachiman e di Usa sorgere dietro gli ultimi passi lasciati sull’asfalto della città. Grido dentro. Impresa compiuta. Impresa compiuta…

L’Ultimo Strappo, l’Ultima Cucitura (Parte III): I Giganti di Oita

Ciò che mi colpisce per primo di Oita (大分) è, a malincuore, la pioggia. Dopo un anno intero di giornate splendide, oggi mi tocca nuotare di gambe tra il grigio dell’alto e quello che sostiene i miei passi.

Ma una volta che il terzo Shinkansen (in 3 giorni) continua la sua corsa verso Kokura e Hakata lasciandomi indietro, dipende da me riuscire a scoprire la città ben oltre il suo grigio colore mattutino e sperare che il meteo rischiari nel corso della giornata.

Armato di mantellina quindi, con lo sguardo di un Godzilla alto qualche metro al di fuori della stazione che celebra l’uscita di Godzilla – 1.0, il primo gigante di Oita, inizio ad esplorare quella che di fatto è l’ultima prefettura rimasta, l’ultimo tassello di questa mia piccola grande sfida…

La prima tappa della prefettura è il Museo d’arte della stessa (OPAM), sia perché strategicamente è la visita più comoda sia per vedere di far passare al riparo le nuvole sopra di me.

Il museo si sviluppa su ben 4 piani, di cui uno (il piano terra) interamente adibito a reception e sculture, ed il secondo interamente adibito a cafè, ristoranti ed aule interattive. Gli altri piani contengono a rotazione le varie mostre. Quella che riesco a vedere io, al quarto piano, è quella permanente, dedicata agli artisti della prefettura ed anche una speciale, intitolata “Adoration of Bamboo”. Dovete sapere infatti che la prefettura è una delle più famose per quanto riguarda l’oggettistica e la lavorazione del Bamboo.

Assisto anche ad una mostra speciale dedicata ai piccoli artisti della prefettura (dalle scuole medie alle superiori) e rimango folgorato dal livello di immaginazione e tecnica mostrata nei lavori esposti. Uno in particolare attira la mia attenzione. Raffigura una bambina, di spalle, il corpo vestito di chiaro, lo sfondo pure, mentre accovacciata su un tavolo fa i compiti. La schiena ha un buco nel mezzo. Dalla bocca che non vediamo esce una frase sospesa: もう死んじゃうのにね (Mou shinjau noni ne), lett. “Nonostante tutto, sto/stiamo già morendo, sono/siamo già morto/i, vero?”. Controllo i dati dell’artista. Si chiama Eriko. Ha 14 anni.

Scosso, esco per dirigermi verso il Kasuga Jinja (春日神社), uno dei santuari più antichi della prefettura, pieno periodo Heian. Risalente al IX secolo, il tempio acquista importanza dopo che viene diffusa la leggenda che il Shisho Okami (divinità shintoista che accoglie al suo interno più divinità con questo nome) viene “passata” tramite il rituale della divisione delle anime dal Kasuga Taisha di Nara, l’head temple dei Kasuga.

L’edificio principale del santuario fu ricostruito nel 1962 come parte del progetto di recupero dei danni di guerra, seguito dalla costruzione di un nuovo “mon” e di un grande cancello torii, e man mano che la città di Oita si sviluppò come una nuova città industriale, il numero di fedeli aumentò gradualmente.

Colori talmente intensi che trascendono il meteo

Addentrandomi nella città arrivo al Funai Castle Ruins, nel quale entro dall’unico ponte dei 4 rimasti.

Il castello di Funai (1562) di cui oggi rimangono solo alcune mura e yagura, è fortemente associato ad Otomo Sorin, così come il vicino castello di Usuki. Gli Otomo erano un potente clan del Kyushu che durante la prima metà del XVI secolo espanse gradualmente il proprio controllo sui vicini daimyo. Quando Otomo Sorin divenne il 21esimo Daimyo Otomo nel 1550, continuò ad espandere il territorio Otomo e alla fine la famiglia fu conosciuta come i “Signori delle Sette Province” (del Kyushu). Ma dopo aver sottovalutato gli Shimazu (di Kagoshima), consentendo loro varie vittorie, Otomo Sorin si ritirò nel castello di Funai nel 1586 e chiese aiuto a Hideyoshi. Hideyoshi arrivò un anno più tardi ma non prima che gli Shimazu avessero preso il castello di Funai. Hideyoshi e i suoi alleati, inclusi gli Otomo, sconfissero gli Shimazu.

Successivamente, nel 1600, Funai fu confiscato al figlio di Sorin, Yoshimune, per un atto di codardia durante la campagna di Corea, e donato a Takenaka Shigetoshi.

Alcune delle difficoltà incontrate da Otomo Sorin possono essere attribuite al suo abbraccio al cristianesimo che causò problemi con i suoi stessi vassalli. Sorin fu uno dei pochi signori giapponesi che incontrò effettivamente Francesco Saverio, che si era fermato a Funai mentre andava da Kagoshima a Yamaguchi. Xavier dovette chiedere il permesso a Sorin per incontrare alcune navi portoghesi, e Sorin era interessato a costruire un rapporto con i potenti stranieri. Sorin alla fine divenne lui stesso cristiano nel 1568, dopo aver precedentemente battezzato suo figlio.
Non si sa con certezza quanta convinzione spinse la sua conversione né quanta astuzia politica. Navi da guerra portoghesi aiutarono Sorin nella battaglia di Moji e lui, insieme ad altri due daimyo cristiani, inviò una delegazione in Europa nel 1582, che incontrò vari capi di Stato, Papa compreso. Nonostante le “buone” intenzioni di Sorin, molti dei cristiani non lo riparagarono con la stessa moneta, distruggendo nell’area di Oita molti templi e santuari.

Una delle yagura rimaste, come sempre in contrapposizione con il tempo che avanza, alle sue spalle

Vedendo le mura del castello non posso non pensare (e parlarne quindi) di 進撃の巨人 (Shingeki no Kyoujin, l’Attacco dei Giganti), manga (e poi anime) di enorme successo scritto dal mangaka Hajime Isayama, nativo di Hida, una città della prefettura di Oita, la quale oggi è addobbadata con le statue dei personaggi principali del manga. Una parte di me, ancor prima di partire, ha sempre collegato l’idea di Oita come patria di giganti. Una volta scoperta, credo di averne trovati addirittura di nuovi…

Mentre continuo il mio sognare ad occhi aperti, passo attraverso l’Heiwa City Park (平和公園), un parco sopraelevato che funge da verde svago, soprattutto oggi che vi è grigio un po’ ovunque. Come molti parchi, anche questo è dedicato all’auspicio di pace (平和, pace) ed il primo punto in cui gli ultimi giganti di Oita si possono vedere. Ma ne parleremo più tardi.

Dal parco salgo un poco finchè non entro in una parte di foresta bruna e umida. Sbuco, dopo viscidi gradini di muschio, nell’asfalto dell’Oita Gokoku Jinja (大分県護国神社), uno dei Gokoku più importanti di tutta la nazione, visitato più volte in passato (1962, 1966, 2017) dalla famiglia imperiale. Costruito nel 1898, come spesso capita, per i defunti di una guerra soltanto, diverrà testimone di troppe altre, andando a contare più di 44.000 “pilastri” sotto la sua protezione. L’edificio principale, silente e maestoso, dietro il torii bianco circondato da scalinate che sbucano dalla vegetazione della collina circostante, è stato completato nel 1945.

Oltre il torii bianco principale, gli ultimi giganti di Oita, dalla piccola terrazza al di fuori del tempio, mi appaiono chiaramente per la seconda volta. Non sono i giganti di Iseyama, non sono le statue di Godzilla fuori dalla stazione. Colonne di cemento delle industrie siderurgiche più importanti della nazione che fumano progresso nelle nuvole plumbee, che spiazzano e spezzano la vista prima del mare. Sono questi giganti i motori dello sviluppo industriale e sociale di Oita.

Una volta tornato verso l’asfalto mi aspetta un trittico di templi. Per primo l’Hiedainari Shrine (稗田稲荷神社), un piccolo Inari imcastonato tra i saliscendi della zona. Il rosso dei torii si esalta nell’umida aria dell’ultimo ottobre, i kanji neri sui pilastri quasi brillano, come a cercare abbondanza, quell’abbondanza di raccolto tanto venerata tra i suoi stessi precinti per secoli, soprattutto in giorni come questo.

Di seguito mi sposto all’Oitasha (大分社). Le divinità consacrate nel tempio sono Oita no Kimi no Chikomi e Tomonbetsu no Mikoto (figlio dell’imperatore Keiko), che si dice sia il fondatore del clan Oita, clan che dà il nome alla prefettura. Si pensa che il tempio sia stato costruito per onorare la morte e le imprese militari di un generale di nome Wakaomi durante la guerra Jinshin (672, il primo anno dell’imperatore Tenmu).

Nell’869 fu spostato nella sua posizione attuale. Fu venerato dal clan Otomo, e fu designato come Ichinomiya della prefettura nel XVI secolo. Nel recinto rimane una pagoda di pietra dedicata al clan Otomo (1365). Dopo un incendio (quasi mi mancavano) fu ricostuito nel 1657, periodo del quale mantiene le caratteristiche architettoniche ancora oggi.

Il particolare doppio torii dell’Oitasha visto dall’interno del tempio
Vi chiederete: perché Simone ha fotografato un palo della luce e una recinzione? Se guardate oltre vedrete dei loculi. Quelli sono resti di antiche sepolture nella roccia risalenti ben prima degli Otomo. Il problema? Vedete quelle due linee rosse vicino ai loculi? Sono studenti. Minorenni. L’unico modo per osservare i loculi da vicino è infatti entrare nei precinti della scuola. Ecco la risposta alla prima domanda di questa didascalia.

Come ultimo visito il Manjuji (万寿寺), appartenente alla setta Rinzai, costruito da Sadachika Otomo, quinta generazione della famiglia Otomo come luogo di ritrovo per i monaci dell’intera prefettura. La costruzione inizia nel 1306 e terminata qualche anno più tardi. È riconosciuto come uno dei Tenka Jissatsu (天下十刹), 10 grandi templi edificati nella prefettura durante il periodo Kamakura ed ancora oggi è centro culturale e di studio/esercizio per molti monaci. Distrutto più volte da vari incendi, viene ricostruito per l’ultima volta nel 1633.

Per sensazioni e colori, uno dei templi più belli e meglio tenuti di tutta la città

Percorro una delle vene principali che dall’esterno della città mi riporta verso il suo centro. In un moto entropico, anche la pioggia smette di cadere, lasciandomi quindi libero di liberarmi della mantellina fradicia.

L’ultima tappa della città sono le rovine dell’Old Otomo Residence, che consiste nei resti all’aria aperta, in attesa di un ulteriore Restaurazione, dell’antica residenza utilizzata dalla famiglia Otomo durante gli anni di regno, dall’epoca Sengoku a quella Meiji (la residenza sembra essere stata ricostruita nel XVI secolo). Gli scavi hanno riportato alla luce la residenza (contribuendo anche alla costruzione del giardino adiacente) nel 1998 e proseguiti nuovamente nel 2016.

Arrivo in albergo, nelle zone adiacenti alla stazione, quando ancora il sole brilla di vivo arancione, un colore accentuato dalla pioggia caduta leggera per quasi tutta la giornata. Ma noi siamo abituati perfino alla neve e sorridiamo. Anche se non è mai esistito un vero noi. È l’illusione di essere giganti. È l’adrenalina dell’ultima battaglia…

L’Ultimo Strappo, l’Ultima Cucitura (Parte II): Il Profumo delle Origini

Lascio Kagoshima mentre la città si sveglia. In contromano rispetto al fiume di studenti, io mi inoltro per l’ultima volta (per ora) nelle vie attorno alla stazione per poi entrare nei cancelli dello Shinkansen.

Mentre aspetto al binario, una signora si avvicina, biglietti blu chiaro alla mano. Accenna una richiesta di aiuto ma si ferma quando vede che non sono giapponese. Nonostante ciò, rispondo alla domanda. Il treno che deve prendere è il mio stesso treno, il binario e l’orario coincidono. Non deve preoccuparsi. Noto, mentre mi ringrazia, che sarà seduta di fianco a me. Ma non glielo dico. Una volta che entriamo nella carrozza n.4 e ci ritroviamo vicini, la signora sussurra di gioia. Durante il tragitto, inevitabilmente, parliamo. Mi intima di fare colazione perché è importante ed io scopro un po’ più della sua storia. Ha 81 anni ed è la prima volta da molto tempo che fa un viaggio così lontano da Tokyo. Tutta sola è venuta a cercare i suoi compagni di classe con cui ha condiviso l’infanzia nel Kyushu , tra Kagoshima e Miyazaki quando aveva tra i 4 e i 7 anni. Ascolto. È in momenti come questo che benedico la mia vena curiosa, la mia costante voglia, nonostante la timidezza, di sapere e di imparare.

La signora si addormenta ed io prendo appunti sulla sua storia. Quando si sveglia ormai è ora di scendere: il capolinea è vicino. La saluto dicendole di prendersi cura di sé e di fare attenzione. E lei risponde lo stesso.

Una volta uscito dalla stazione, lo stesso sole (ma forse diverso) mi accoglie a Miyazaki (宮崎), capoluogo dell’omonima prefettura. Viro a destra. Non molto lontano dalla stazione vi è un blocco di punti di interesse, tutti ravvicinati. Ed il primo è il Miyazaki Jingu (宮崎神宮), che contiene a sua volta, quasi inglobandoli, il Miyazaki Hachimangu (宮崎八幡宮) e il Miyazaki Gokoku Shrine (宮崎県護国神社)

Il Miyazaki Jingu è il tempio più importante della prefettura (e non solo), luogo finale del primo leggendario imperatore del Giappone, Jinmu. Secondo le leggende, Jinmu è diretto discendente della dea Amaterasu, specificatamente mandato da essa in Giappone per poterlo governare sotto la sacra luce del sole divino.

Il tempio, come ogni Jingu, è immerso nel verde, con templi Inari e stagni ad incorniciarne la bellezza segreta. Insieme a me, nella visita, anche moltissime famiglie, alcune delle quali vedrò partecipare poi a riti shinto una volta arrivato all’Haiden, completamente inaccessibile ai non addetti ai lavori.

Il Miyazaki Hachimangu viene invece costruito attorno al 1050 dal clan Naito (che governa la prefettura fino all’insediamento del Clan Nabeoka), è dimora del dio della guerra Hachiman, deificazione dell’imperatore Ojin…
…avvolto nel rosso sgargiante delle sue strutture longilinee e pulite.
Pagode lungo la strada
Il primo grande torii del Miyazaki Jingu
Era da tanto che non vedevo questi colori…
Recinto che segna la fine del 外宮, il complesso esterno
Il Naiku del Miyazaki Jingu (内宮)
Alcuni cameraman intenti a riprendere le funzioni nell’Haiden, lasciando presumere a clienti importanti

Sul lato sinistro del tempio vi è il Miyazaki Gokoku Jinja, uno dei Gokoku che contiene il più alto numero di “pilastri”, 40.873, raffiguranti le anime dei caduti dell’era Meishi in avanti. Il suo torii bianco, imponente svetta sul paesaggio verde/bruno, creando un contrasto armonioso tra storia, sacralità e natura.

Dall’altra parte della strada, si estende invece la parte artistica della città, il Miyazaki Prefectural Museum (宮崎県立博物館) completamente gratuito nelle sue mostre permanenti, che includono sia lavori di artisti di Miyazaki nei secoli, sia opere che rappresentino il valore culturale ed artistico del Giappone. Non mancano però opere anche di artisti occidentali, come Magritte, Klee e Cezanne.

Mi allontano, e di parecchio. Evito (a malincuore) le grida di gioia ed i sorrisi dei bambini che giocano nei parchi attorno al museo e mi dirigo verso il Miyazaki Heiwaidani Park, un parco piuttosto strano. E capirete presto il perché.

Il Parco Heiwadai (平和台公園) o anche Peace Tower Park, è stato costruito nel 1940 per celebrare il 2600° anniversario dell’ascensione dell’imperatore Jinmu su quello che si ritiene essere il sito originale della sua capitale. la Torre della Pace, o Heiwadainoto, una torre costruita con pietre provenienti da tutta l’Asia e uno dei monumenti più riconoscibili di Miyazaki.

La Torre della Pace doveva simboleggiare un mondo unito, ma il design risulta estremamente belligerante, come fossi appena uscito da una delle miniere naniche di Skyrim. Sulla parte anteriore della torre c’è la frase “Hakko Ichiu”, che è, di norma, attribuita all’imperatore Jinmu e significa “Uniti sotto lo stesso tetto”. Anche se è un po’ ambiguo ciò che intendeva (o forse solo la sua interpretazione, visto che non possiamo sapere fin dove il “tetto” si estendesse), questa frase fu spesso usata come grido di battaglia per unire l’Asia sotto la guida giapponese durante l’era dell’imperialismo.

Discendo i pochi tornanti, ed una volta tornato sulla strada principale, deserta, mi introfulo nelle stradine alla sua destra per andare al Kogu Shrine, uno dei templi meno conosciuti e più belli della città. Incastonato tra le canfore, i pini, la ghiaia sottile ed il legno della sua stessa struttura, questo tempio è costruito dobe un tempo vi era la tenuta dei daimyo Nobeoka durante il periodo Edo (1603–1867), perché era considerato relativamente sicuro da inondazioni, terremoti e altri disastri naturali. Non si sa quando fu costruito qui il primo santuario, ma verso la fine del periodo Edo, con la rinascita del culto dell’imperatore e l’aumento dell’interesse per gli antichi miti del Giappone, la collina fu dichiarata il sito del palazzo di Jimmu. Fu da questo palazzo che Jimmu partì per stabilire un governo in quella che oggi è la Prefettura di Nara e per essere dichiarato imperatore.

Dopo la Restaurazione Meiji del 1868, il nuovo governo dell’imperatore Meiji (1852-1912) incoraggiò il culto e il mantenimento dei siti associati alla mitologia nativa e alle leggende sull’origine della linea imperiale. Il Santuario Kogu, che custodisce l’anima di Jinmu, sua moglie Ahiratsu e due dei loro figli, fu ampliato nel 1934 e nel 1940, al culmine della venerazione dell’imperatore in tempo di guerra, un gigantesco monumento in pietra fu eretto vicino all’accesso per delimitare il sito da quale partirono le forze dell’Imperatore Jinmu. Il santuario stesso è stato ricostruito nel sito attuale nel 1976.

Il Kogu Shrine, non sapendolo, inaugura una serie di visite a templi che mi porteranno alla scoperta delle radici religiose del Giappone e della prefettura, visite di stampo nettamente diverso da quelle di Kagoshima, dove era la storia recente la protagonista.

Il primo di questa lista è l’Hitotsuba Inari Shrine (ひとつば稲荷神社). Il santuario è conosciuto come uno dei luoghi in cui le richieste di fortuna si avverano più di ogni altro luogo sacro della città. Sulla sinistra del tempio, come a suggellare questa leggenda, c’è anche un Zeniarai Benten (銭新居弁天), ovvero un tempio in cui si lavano le banconote per aumentare la propria fortuna e successo economico. Dopo aver visitato la parte anteriore del santuario, dovresti camminare in senso orario e vedere il rilievo di un coniglio e uno tsunami sulla parete superiore sul retro del santuario. La leggenda narra che un coniglio apparve dal nulla in una notte di luna e prese a calci lo tsunami che si stava avvicinando all’edificio principale del tempio, di fatto, proteggendolo dell’onda anomala.

Mi dirigo verso la parte più esterna della città, il profumo della costa che sale più forte alla mia sinistra. Il sole inaspettato è ancora abbagliante nonostante sia già settembre inoltrato, ma è per questo che così tanto mi piace questo mese alle soglie dell’autunno.

Continuo costeggiando il cielo azzurro e la costa poco distante finché non arrivo al Tamoto Shrine (田元神社). Questo santuario ha una storia molto lunga.
Si dice che Konohanasakuya Hime no Mikoto sia stata custodita separatamente e poi spotata e venerata qui.
Questa divinità di genere femminile è collegata all’attuale famiglia imperiale ed è considerata la dea più bella della mitologia giapponese. Si dice che sia stato anche il modello della principessa Kaguya in “La storia del tagliatore di bambù”.
È anche la madre di Umisachihiko e Yamasachihiko. Nella città è conosciuto soprattutto per il suo corridoio di furin che, nonostante fosse settembre, era ancora installato.

Corridoio di furin

Torno verso la città e decido di fermarmi nel “contenuto” Yasaka Shrine (八坂神社) Uno dei tanti Yasaka sparsi per il Giappone. L’head temple è quello che si trovo a Kyoto, nel quartiere Gion. Soprannominato “Gion-san”, il Santuario Yasaka è l’head temple di tutti gli Yasaka, di cui ce ne sono circa 3.000 in tutto il Giappone. Ci sono molte divinità custodite nel Santuario Yasaka, come quelle dedite alla prevenzione delle malattie, alla promozione della bellezza, alla benedizione delle coppie, all’incoraggiamento degli affari e al dio delle spade.

Poco distante, un torii bianco sembra chiamarmi dal lato sinistro della strada. Giungo al Miyazaki Tenmangu (宮崎天満), un altro tempio satellite dei Tenmangu, ovvero quei templi dedicati al dio della saggezza e dell’apprendimento. Una volta avvicinato al piccolo edificio principale, ho notato che vi era un libro delle firme e, senza pensarci troppo, a differenza di altre situazioni, ho firmato, ho reso indelebile il mio passaggio prima di sparire nella vegetazione del parco circostante.

Attraverso acqua e asfalto in misura equa, qui a Miyazaki. E per arrivare al punto d’arrivo ne manca ancora un po’ di entrambi. Probabilmente il tempio (escluso il Miyazaki Jingu) dall’aura sacra più preminente, l’Odo Shrine (大戸神社) mi accoglie con le risate dei bambini che si rincorrono nelle scuole vicine.

Il tempio è immerso nel verde, (e sembra esserlo stato sin dalla sua fondazione) con un ampio viale che conduce ad una svolta a sinistra, nascondendo fino a quel momento l’Honden, a sua volta preceduto da un albero di canfora biforcuto nel mezzo del giardino. Il nome del tempio deriva da un frammento (Tachibana-no-Odo) tratto dalle Harae Kotoba (祓詞), una serie di preghiere che garantiscono la purificazione in alcuni rituali shinto.

Viale d’ingresso
Architetturalmente una stranezza, questo che vedete è strutturalmente un cancello d’ingresso di tempi buddhisti, ma è nella stessa posizione di un torii shintoista (oltre ad essere io in un tempio shintoista).
Amaterasu-no-omikami, Okiki-no-omikami, Sounari-omikami e Kiinada-hime-omikami sono le divinità che dimora presso l’Odo Shrine

Sulle prime luci discendenti, sbadiglio. Ma solo per il poco sonno che non deriva dalla camminata. Una volta arrivato in albergo ho ancora la forza per cantare sotto la doccia (niente vasca stavolta), e preparare l’itinerario del giorno successivo, ripesando ancora a quanto sia stato intenso e ammaliante il viaggio a ritroso nel tempo così vicino all’origine leggendaria, mitica di tutto ciò che mi è attorno…

The Sins of the Fathers, or the Japanese Denialism

by Simone Arcigni

As a deep lover of Asian culture, this moment had to come sooner or later. I thought my knowledge was enough. I thought I was ready. But I was only at half.
It all started on the streets of Nagasaki. I don’t remember how, but I remember very well the reason for what happened next, the reason for this article. I had a great desire to tell a lot of truths, to find someone able to listen and talk without getting angry.
It all begins, as it should, from the beginning, from what I know and from some simple doubts. The word kanji (漢字), if we separate the two symbols, literally means “Chinese [漢] symbol/character [字]. But do the Japanese know this?

You will think, “Of course, it is their language.” But, actually it is not. Plus, their awareness of the truth and facts of their language and culture are very different from what they really know. Or that they are willing to know. This is where my little investigation starts. After a few questions around, the first answers on the question of “Chinese and Korean derivation of Japanese culture” slip through my fingers. Because they are obvious. And for this reason, avoided, I think. For example, it is not mentioned that, in the genetic (and consequently cultural) construction of what the Japanese are today, today’s Japanese are nothing more than a mixture of Yayoi (those coming from the continent, i.e. China and Korea) and Jomon ( the natives of the island, who in turn are a mix of ethnic groups, mostly Eurasian and American). And in this mixing, the Yayoi are certainly those who have had a higher influence (in numbers and “contagion”). And the counter-proof is precisely the diffusion of that continental culture through the centuries, which is proof of the first contact, of the first intertwining.

To be honest, however, it is necessary to specify that in modern Japanese, as per studies, not enough elements have been found to affirm that it comes from Chinese or that Korean, Chinese and Japanese (along with other Asian languages) belong to the same initial root. To avoid giving the impression that the people of the Land of the Rising Sun originate from Chinese and Koreans (and are therefore in some subtle way subordinate to them), the schools (brace yourselves) deliberately omit this historical detail, replacing it with a more generic “God created man and “scattered” him throughout the world. Some of them came from the mainland and began the creation of the Japan we know today.” This is what I was told school teachers teach. It is not specified where these infamous ancestors come from, nor the propulsive cultural importance they bring in their movements.

This is not denialism. It is not historical revisionism. It is total unmotivated censorship. It is, give me the term, omissionism. It is propaganda in the most shocking form. It’s dictatorship. It is as if, given that some Muslims are terrorists, we said in schools that all European peoples were related to each other already 40,000 years ago, but not to those who in reality were the fulcrum of the genetic expansion of the entire European continent, indeed, the Arabs.

My colleague points out that all Japanese should be aware of the fact that their culture, in the first place, derives from Chinese culture (but he never mentions Korean influences). Ignorance regarding this specific part appears to be personal and self-imposed. What is most firmly omitted is certainly the mixture of the initial ethnic groups. Which is probably even more serious, considering those (Hitler, between others) who, with similar ideas, decimated the population of half of Europe in the XX century.

But this is antiquity, Simone. Let’s go further. But ask yourself a question: have men ever learned from their mistakes? No.
So as you can understand, things are not improving. We are talking here about a censorship on historiography that goes back centuries, centuries fixed with proud roots on the flanks of the country, until older generations.

With these premises it is necessary to imagine that the subsequent “mistakes” (or horrors) committed by Japan can only have received the same treatment.

Let’s go back to homeland, let’s go back to Gunkanjima, where this research of mine began. As mentioned, something was wrong during the visit. The speaker’s voice told only half of the story. Yet there is much talk about the fact that the island is a UNESCO Heritage Site as an image and symbol of industrial development in the Meiji period. Another great Japanese find. To obtain UNESCO’s approval against the opposition of the two (united) Koreas, Japan half-admits in 2015, saying it is aware of the problem represented by the island’s history (without specifying the topic of which they are aware) and then retract their own ambiguous words immediately after the withdrawal of the Korean protests and the green light from UNESCO.

Intrigued by the omissions of an intire island turned into a concentration camp, once I returned to Yokohama, I explained the story of Gunkanjima to my colleague, who turned 48 in June, coming from a family that, at the time of his great-grandfather and grandfather, was considered wealthy, fresh from university of Economics. He knew nothing about it. I showed him the photos, the testimonies of the Koreans translated into Japanese, of the American officers who landed on the island. “知らない” (shiranai, I don’t know), was his response. “We don’t talk about the bad things Japan has done. And if it has done so, the mentality is “やるってじゃない, やられた” (yarutte janai, yarareta) that is, Japan has never acted (yaru, active form) to do harm . Japan has always suffered (yarareta, passive form of the verb yaru) from outside, from others, from foreigners, and for this reason it has had to defend itself. That’s why Japan did the things he did.”

I thought it was just misinformation from the new generation. I never imagined I would find systematicity in the omission of historical facts. Startled, I try to articulate a few more questions. You understand well that this new information explains even further the social, political and personal distrust that sometimes, not always, can be perceived towards those who come from outside. I’m not sure why, but Pearl Harbor comes up in the conversation. A surprise attack. I seize the opportunity and smash it in the face of my colleague who, however, this time, seems prepared for my attack. My colleague tells me that in Japanese schools (perhaps including today’s school system) the accident does not exist. It is not mentioned. Indeed, it is taught that it was a defense reflex for Japan (when everyone knows that a good part of the decision for the entry of the United States depended on the treacherous attack on Pearl Harbor). He knows about it because he informed himself. Because he wanted to know. I will always think that thirst for knowledge is a blessing, not a damnation, also for these reasons…

With this umpteenth premise, the subsequent speeches sound like one novelty after another for my listener.

1937. Nanjing massacre. The Japanese invade the city, at the time the capital of China, and establish dominion over it. Normal war action. And I repeat. The main problem is not brutality (in fact, I believe it is almost brutally natural that during war, due to mentality and supremacy, almost everything is allowed, and also that during such periods human beings ALL showed their worst), but it is the cover-up of what happens during the capture of the city and all the other situations in which blindfolded people believe what they say. With the defenses already lowered, the city on its knees, the Japanese had fun. Rape, looting, killing of civilians. There are articles, later hidden or denied or withdrawn, written by Japanese journalists themselves, in which challenges between officers and soldiers are described over who, armed with a katana, could kill one hundred people in the shortest time. Photos depicting soldiers impaling newborns on the bayonet and then throwing them into the acid or in the ice of the Nanjing winter. Photos of naked women, raped several times, left in the snow with a bayonet stuck between their abdomen and genitals. This basically transpires only thanks to the testimonies of the “safe citadel”, a safe zone beyond the area of the city occupied by the Japanese, in which foreigners resided (mostly Americans, British and Germans), including many reporters, who on the other part of the bridges of Nanjing watched helplessly, while among those who enjoy the Japanese there is also a certain Yasuhiko. Pardon. Prince Yasuhiko (and this hurts me more since I’m an estimator of the idealization of the Emperor figure, as much as I am of the godly aspect of Egyptian pharaohs).

1937-1945. Unit 731 (七三一舞台). I’m sure they wouldn’t have taught this story in school anyway, so I didn’t ask. Here we are only talking about good old denialism and some other “-ism” to taste.
The unit was made up of Japanese soldiers and officers and was stationed in Pingfang, Harbin, China. The complex, which included two secret prisons, was a front for biochemical warfare experiments on humans under the Imperial Japanese Army. The (unofficial) purpose was to test the effects of a staggering number of weapons on humans to prepare effective countermeasures in the field for Japanese soldiers engaged on the various fronts. The real purpose? Torture. Favorite victims? Chinese, of course, Russians and Koreans.
The range of experiments and brutalities carried out in the name of science is mind-blowing. As in every concentration camp we have been accustomed to, people were dehumanized. Not with numbers here but calling them “log” in Japanese 丸太, (maruta, log, trunk). Seen as guinea pigs without humanity, therefore, from a semantic and moral point of view, everything was granted, doable. The most common experiments were vivisection on living bodies without anesthesia after infecting them with diseases (smallpox, plague, typhoid, cholera) to test the effects of stab wounds or on pregnant women to see the effects they had on the fetus), experiments with various types of gas (mostly mustard gas but also anthrax) and tests on the transmission of diseases between couples and/or fetuses.
One of the experiments that the Japanese liked most was to have women raped by soldiers suffering from syphilis until they contracted the disease and then vivisected them to see the effects. Or amputate limbs from men through a strong thermal shock (leaving the limbs at several tens of degrees below zero, for example), see the effects of the shock and then reattach the limbs in reverse to monitor the reaction of the subject’s body.

Returning to the experiments aimed more explicitly at war, tests were conducted with grenades and flamethrowers on naked prisoners, chained to wooden poles, and then the damage was ascertained. Others were exposed to puffer fish poison, others spun in huge centrifuges until death occurred, others to deadly doses of X-rays.
The peak was reached towards the end of the war, when, probably in panic at the imminent defeat and in an attempt to understand how to get rid of most of the evidence, a series of bombs containing typhoid fever pathogens were dropped on some cities of the province of Hunan, infecting hundreds of thousands of people (and animals, which then contributed to keeping the pathogenic strain alive in the following years).

But the war ends. The war is lost. The Russians are at the gates. And everything must be dismantled. Buildings are razed to the ground by arson, prisoners of the compounds killed, Japanese soldiers forced to kill themselves with doses of potassium cyanide. Only a few walls remain standing, many skeletons. No official documents survive in Allied hands. Unit 731 disappears from Chinese lands having killed (in the most barbaric ways) around half a million innocents.

The generals in command, those who do not follow the fate of their subordinates, are not punished (as happened in Nuremberg), but it is said that most of them returned to civilian life immediately after the Americans left the country, becoming after the progenitors of the Japanese political class. Class A criminals (same class as Hitler, highest for war criminals) as prime ministers of a nation. This could have been the scenery of Japan in the 50s.

The reason, for the historians, lies in the world’s attitude towards the matter. And the balance tips are the United States and Russia. The United States gave immunity guarantees to the 731 officers they captured in exchange for the unit’s achievements. Russia instead tried and sentenced all prisoners of war captured by Soviet forces.

In 1952, shortly after the Americans left Japan, suspicious deaths occur at the Nagoya psychiatric hospital. It is thought that it is actually one of the officers of the 731. And the problem is talked about again, without however any type of official admission. In 1997 it was decided by the Supreme Court of Japan that all the testimonies voluntarily given by the former officers and soldiers of the 731 (the only official evidence at the time, together with some ruins in the province of Hunan which serve as museums, of the operations of the unit) violate the Freedom of Speech and therefore any type of historical and legal value is canceled, with immediate removal from history books and from the educational program (present and future).
In 2002 there appears to be an opening by the government, which admits, in the most general form, that Japan was involved and took part in the development of mass chemical weapons. Obviously, with the change of government, these words came into question again.
In 2018, after an official request from Shiga University, the Japanese government made public more than 3000 names of people who took part in Unit 731, thus confirming, involuntarily or voluntarily, the real involvement of the Japanese government and the extensive possession of evidence in this regard.

Somehow I feel free, but incomplete. A sort of revolutionary spirit is born in me, typical of those martyrs of communication and information who do everything to open the eyes of those who have always been blinded by false news. But if the world now knows, the world around me still doesn’t. It is to them that I must address my revolution. My colleague asks whether what Japan has been doing for decades is not similar to what Germany could do with Nazism.

I reply that, although historical revisionism is a more widespread practice than it should be and varies in intensity between those who define themselves as victims and those who are accused of being executioners (we are talking about Turks and Armenians, Israel and Palestine, among others) as well as school programs and the national system, Germany only tried to deny what it had done in the first post-surrender years. But also thanks to Nuremberg and the dissemination of information (and the testimonies of those who printed those years on our skin) it was not possible to create a revisionist counter-propaganda that would cover everything up. Nonetheless, today there are more Holocaust deniers than they should be. In the end, however, willy-nilly, Germany left its citizens the right to decide, on the basis of facts and documents, which judgment to apply to the merciless actions of Nazi Germany. Did they just follow orders? Were they convinced of what they were doing? Was Hitler crazy? Or an enlightened strategist with an all-too-precise plan? These questions to think about can ONLY be asked as long as the basic information is disclosed. If what you need to reason about does not exist or is omitted or altered, not only can you not reason, but if you manage to do so, a distorted, ambiguous, inaccurate, sick thought will be created which will inevitably worsen the reasoning. Hawking’s information paradox seems to be more apt now than ever.

Furthermore, modern Germany (post-1960s), in all its federal states, has a strict educational policy regarding the topic: It is compulsory and addressed in a trans-didactic way (references to music, literature, biology, religion, etc.). For these reasons I felt like replying that the association, overall, did not hold up.

At that point, my colleague said a sentence of weighty and shocking truth. “So Japan is like Russia…”

It was as if he understood, for the first time, that the system he found himself in was not healthy. He looked at his hands, with the help of some external light, and saw only blood and mud…

I also ask a Japanese friend, 28 years old. I ask the same questions asking for a straight answer to each of them: do you know these events, yes or no? She replies that she has vaguely heard of Korean comfort women, but the topic has never been explored in depth. As well as the origin of the Japanese people. Every other topic is as if it never existed. She also adds that in her opinion, the reason for these obscurantist attitudes has to do with Japan’s school policy, which is based on a sort of axiom: don’t talk about your mistakes. I had vaguely imagined it.

I ask if, jumping back a generation, I asked her parents the same things, would they be able to give me an affirmative answer. She asserted that no, she does not believe that her mother and father have ever received teachings regarding these specific topics, therefore following the educational line I was talking about before.

It is then the turn of the two most extreme positions. I ask the same questions to a 30 year old girl, a former student at Waseda, with extensive knowledge of English, with work experience abroad. But the reaction is absurd. The first thing that is pointed out is that Koreans like to rewrite history. (Who doesn’t like that?) And that she hates Koreans for it. The second point that I am objected to, is the use of the term “sexual slavery” in reference to comfort women. “They were the ones who offered themselves as prostitutes,” she says.

I check immediately. If, in reading articles, one actually notices a shift in the balance regarding a spontaneous offering of one’s bodies to the Japanese army, if we check the classified documents of the Japanese army made public in 1994, it becomes clear that, even if at first the brothels had been opened to control rapes and the transmission of venereal diseases, they had then ended up increasing both things, with obvious supervision by the army itself, as happened in Nanjing (in many historians believe that the ferocity of the Japanese soldiers was due to the complete abstinence required of them once they joined the army). And in neither case, it seems, did the Korean women involved have any choice.

But things get even more serious. She asks me why I’m doing this research. I reply that it’s for my blog.

“If it’s to help Koreans, I won’t help you.” I’m horrified. “Even if the article is in English nobody will read it. But I want to finish it. It is not to help Japanese or Korean. It is a tentative of critical talk. And I need your testimony, as objective as possible”. “Then you can’t help Koreans. Ask someone else…”, she replies. The conversation ends here, surprisingly, with more answers than expected.

Answers that I do not want to do again overseas. In fact, the grandmother of a Korean friend of mine, like many other women of that age, experienced firsthand what the Japanese struggle to pronounce even today. After she confided her story to me, 2 years ago, out of respect and also a little out of fear of losing her friendship, I never spoke about this story again. But we know that I know. And this is the strength of our silence.

The third girl I ask is Japanese, of Japanese descent but she never studied in Japan, but in France and Switzerland. When she starts, by pure chance, to say that she would like to return to Japan but then return to Europe BEFORE her daughter enters middle school, I understand that it is the right time to ask. I felt like she feel to know that the Japanese school system is something like a disease that is best not to come into contact with.
I ask her the same questions. Although she admits that no one taught her these things (and therefore her admission, due to my research, loses a bit of bite, but she discovered them because she was curious and passionate about history), she is aware of everything I have mentioned regarding the sins of the fathers. And speaking of fathers, she does not exclude that her parents, having traveled mostly outside Japan, do not want to talk about what I asked her but that they are aware of it, showing the usual reticence regarding the mistakes of the past but also a more adult awareness of what has been, and not of what has been made to happen.

So what are the conclusions? Why does it really continue along this educational line, of crazy indoctrination, following an idea of patriotism (which I appreciate) but in the saddest way possible? As mentioned, each nation uses a sort of historical revisionism, in a soft way, showing itself to be a little more victim when it loses and a little more sovereign when it wins. It is a historical relativism that in my opinion, to a certain extent, can be accepted. The thing that surprised me (despite starting from a general knowledge of the Japanese attitude towards certain topics and historical moments) was the reticence, the systematic alteration of information and its depth.

What is the real motive? Does honor have anything to do with it? Is it about the idea of having been mistreated by Europe during the Treaty of Versailles despite having been victorious? Is it about the continued desire to establish itself as a cornerstone of Asia, more than its surrounding brothers? Is it the result of an already present distrust or is it just a way to indoctrinate “modern soldiers” who are able to socially and politically maintain the defenses of their country, unarmed compared to those around them?

Some blame (not so much total misinformation but individual misinformation) the so-called “Heiwa-boke” (平和ボケ, “peace stupidity”), an extremely interesting concept. According to this approach, the absence of war in a country forged by them has weakened the spirit of the people, has actually made them stupid, making them gullible, without any kind of “wit”, deprived of all character changes and “positive” social issues derived from the need to face a conflict (national or international). Even today, some Japanese tend to say, in a disparaging tone, when a person is too naïve and is used to believing anything that is a “Heiwa-boke”. And this linguistic and social phenomenon is generally addressed to the new generations (who have never known war) through the mouths of generations who have fought more than one (and perhaps even someone in Europe would think the same way about the new conscription).

At this point a diametrically opposite reasoning comes to mind. And if the Japanese had become stupid and had closed their ears and eyes to the truth not because of the Heiwa-boke, but on the contrary, had become Heiwa-boke, numbed by peace, precisely because of the Japanese “school policy”, precisely because they have not been told part of their past as a nation? As if denialism had denied their very identity, making them feel lost, and therefore, weaker, more prone to a sort of social and historical stupidity?

The reasons can be infinite, depending on the eye of the beholder and above all the ear of the listener. As for myself, I hope to be able to learn more about it from the Japanese themselves, because history is to be taught and protected, in its good sides and also in its bad sides.

L’Ultimo Strappo, l’Ultima Cucitura (Parte I): All’Ombra del Vulcano

Come già successo per Shin-Hakodate, si punta al capolinea. Ma stavolta a sud, verso Kagoshima-chuo (鹿児島中央), la stazione più a sud della Tokaido-sen. Distanza dalla stazione di Kikuna? 1347 km. Un viaggio di quasi 6 ore, che (avviso spoiler), mi porterà alla conclusione di un’esperienza ancora più viscerale e profonda durata 4 anni…

Arrivo a Kagoshima a mezzogiorno passato. Il dovuto rito ad incorniciare la stazione e sono già in cammino tra le vie della città. Dopo aver visitato il piccolo (arte e cultura) ed aver passato la statua di Nariakira Shimazu, di cui parlerò più tardi, arrivo al Kagoshima City Art Museum (鹿児島美術館). Il museo, al centro della città, esibisce opere che spaziano dall’impressionismo al post-moderno con lavori di Monet, Picasso, Cezanne, accostati all’arte di Seiki Kuroda, uno dei pittori giapponesi che più ha contribuito allo sviluppo dell’idea e delle tecniche dell’arte occidentale in Giappone. Insieme alla pittura però vi è anche spazio ad uno dei crafts più conosciuti della prefettura, ovvero il Kiriko Glass e le ceramiche di Satsuma, entrambi prodotti che solo qui si possono trovare al meglio della loro bellezza. Putroppo, in entrambe le sale espositive non era possibile fare foto, ma verso fine giornata, una volta giunto al Sengan-en, mi sarà possibile mostrarvi almeno le ceramiche.

Torno qualche metro più indietro ed esploro il Terukuni Shrine (照国神社), lett. “Tempio della nazione luminosa/splendente”. Il tempio è dedicato al Daimyo simbolo della prefettura e non solo: Shimazu Nariakira, 28esimo lord del clan Satsuma. Costruito per la prima volta nel 1882 e poi nuovamente nel 1949 dopo che la guerra ne aveva fatto scempio, oggi il tempio è di riferimento per tutti i fedeli e anche per gli storici.

Mentre passo sotto il gigantesco torii bianco, la figura di Shimazu Nariakira spunta prepotente tra le spiegazioni dell’origine e della natura del tempio.

E’ conosciuto oggi come uno dei daimyo più progressisti dell’ “ultimo” Giappone, interessato all’occidente e alla occidentalizzazione del Giappone, per la quale non solo combatterà fisicamente ma anche socialmente (andando a creare, lo vedremo in seguito, il Shuseikan). Sposato con non meno di Tsunehime (che di cognome faceva Tokugawa).

Statua di Shimazu Hisamatsu…
…e di ? proprio di fianco al Terukuni

Ascendo, passando da dietro il Terukuni, a Shiroyama e al suo belvedere, sede una volta di una parte del castello di Kagoshima. Dalla sua terrazza, avvolta nell’ombra del verde, si ha una visuale privilegiata su Sakurajima, un’isola di circa 5000 abitanti che si trova di fronte alla città. Quest’isola è di fatto un vulcano attivo, e nonostante le nubi sembrino nascondere la sua vera natura, a volte sembra che del fumo esca dalla bocca del vulcano e si sparga nel cielo azzurro.

Kagoshima…
…e Sakuragima dall’alto

Scendo dalla larte opposta ma non faccio molta strada. Qualcosa mi spinge a fermarmi a lato della strada. Nella parte discendente di Shiroyama vi è una rientranza che esce dall’asfalto ed ingloba una parte di foresta. Qui, con mia grande sorpresa, trovo 13 Statue di Buddha. 13 di 88. E se si parla di 88, c’è soltanto una cosa a cui si possono riferirsi: il pellegrinaggio dell’Henro, nello Shikoku. Alzo gli occhi verso il pannello esplicativo che conferma che non ho torto. Queste 13 statue sono state erette dai discepoli di Kobo Taishi, “inventore” del pellegrinaggio. Una volta tornato dalla Cina si fece portatore di un nuovo credo, il mio caro Buddhismo Shingon. Convinto che lo Shikoku e le sue 4 province (Awa, Tosa, Iyo e Sanuki) fossero la rappresentazione dei 4 demoni Jigoku, Gaki, Shura e Chikusho diede inizio al pellegrinaggio, fondando 88 templi come gli 88 desideri terreni da far tacere. Qui si ricorda soprattutto una frase di uno dei suoi sermoni più famosi 同行二人 (Dokyū Ninin, 2 sulla stessa strada), tradotto con un più cristiano “Sarò sempre al tuo fianco”. Mi allontano dalla strada per trovare la giusta posizione per emozionarmi a dovere…

Poco oltre il l’ultimo tornante, vedo la Takamori Saigo Cave. In queste spelonche scavate nella roccia, proprio come successe in molti altri momenti della storia del Giappone, Takamori Saigo e i suoi fedelissimi trovarono riparo dalle forze dell’imperatore. Ma è meglio che vi racconti la storia dall’inizio…

Kagoshima (una volta conosciuta come Satsuma) è stata teatro della Satsuma Rebellion, una rivolta di samurai scontenti del nuovo regime imperialista dell’Imperatore Meiji, tutti provenienti dalla regione di Satsuma, nel Kyushu, dove mi trovo ora. Il capo della rivolta, Saigo Takamori e i suoi fedeli trovarono la morte dopo 6 mesi di attacchi durante quella che è l’ultima vera ribellione samurai del Giappone pre-moderno. Il fatto che la ribellione provenga da una delle province che più ha spinto per il reinserimento dell’imperatore, credo faccia riflettere sia sulla forza delle convinzioni degli uomini di quel Giappone, sia su quanto fosse ancora frammentata la nazione e la sua identità.

Le caverne, con un pino rosso che, come un brutto presagio, perfora parte dell’entrata…

La rivolta inizia con il tentativo di conquista del castello di Kumamoto, a nord di Kagoshima, risultante però in una sconfitta per Saigo dopo che l’imperatore manda rinforzi. Lo scenario di guerra si sposta verso sud, a Shiroyama, sulle cui pendici sto lasciando le mie impronte. Nelle caverne della montagna gli ultimi superstiti decidono come procedere dopo essere stati costretti alla ritirata da Kumamoto mentre le truppe imperiali avanzano con l’artiglieria appresso. E sarà proprio uno dei fucili dell’armata imperiale a porre fine alla vita di Saigo. Una volta preso coscienza della morte del proprio leader, gli ultimi “ex-samurai” (samurai nello spirito ma rigettati dal nuovo sistema), caricano frontalmente, spade sguainate, andando incontro al fuoco nemico.

Con la loro morte si spegne anche la fiamma della ribellione. Saigo Takanomori e i suoi compagni sono considerati tutt’ora, storicamente e spiritualmente, gli ultimi veri samurai del Giappone, testimoni di un’era che termina nei loro petti insanguinati.

Se il Terakuni Shrine e’ diventata la dimora di Nariakira, il Nanshu Shrine poco più a nord è l’ultima dimora di Saigo. Il nome del tempio deriva dall’isola di Saigo Nanshu, nella quale Saigo trova riparo una volta che è costretto a fuggire da Kyoto dopo aver appreso della morte di Nariakira, suo protettore, insieme al monaco Gessho (che però affoga nel tentativo di raggiungerla).

Più ascolto il suono della storia e del silenzio, più mi immergo nell’atmosfera di una città che continua a mostrarmi quanto sia importante l’onore, la fede, gli ideali. E tutto questo non fa altro che aumentare la mia energia, il mio passo ed il mio sorriso…

Honden del Nanshu Shrine
Parte interna adibita alle cerimonie

Sorriso che però devo coprire sotto il cappuccio, in quanto, come detto, il sole del Kyushu non perdona, almeno non me e coloro che condividono con me la mia tipologia di pelle. Continuo spostandomi verso nord-est, fino al Kagoshimagosha Inari (鹿児島郷社稲荷神社). La particolarità di questo tempo Inari, situato in un luogo abbastanza anonimo, lontano dal centro è la roccia a forma di “entrata di caverna” che c’è tra il torii d’ingresso e l’Honden. Questa roccia infatti, se osservata con attenzione, ha naturalmente scolpito sul suo arco, a fil di pietra, le fattezze di una volpe, andando a dare un’aura ancora più particolare al tempio, come se la natura stessa avesse investito il tempio di un’energia e di una funzione uniche.

Netta la figura della volpe che mi osserva l’anima…

Continuo allontanandomi dal centro finchè non ritrovo il mare alla mia destra. E uno degli ultimi tasselli della storia di Kagoshima, il Shoko Shuseikan (尚古集成館).

Come detto, la visione di Nariakira, per i 7 anni in cui è stato al potere, era quella più possibilmente progressista. Ammirava la cultura occidentale e cercava da essa di imparare il più possibile per rendere il Giappone una nazione che potesse competere a livello mondiale sia come potenza militare sia come potenza culturale.

Uno dei mezzi con cui Nariakira voleva raggiungere quel livello è proprio il Shoko Shuseikan. Risalente al 1865, si tratta del più vecchio edificio di stampo occidentale del Giappone, usato come centro per processare il metallo che sarebbe servito alla costruzione di navi. Ma questo è solo uno degli edifici che andavano a formare, come tasselli, la visione di Nariakira.

Anche se la maggior parte delle stanze è inaccessibile per lavori di rinnovamento, proprio accanto all’edificio vi è un museo che espone gli ultimi cimeli della famiglia Shimazu (armature, dipinti, sigilli, pergamene), insieme alle nuove tecnologie. E credo sia questo il miglior modo per introdurre il Sengan-en (仙巌園), una delle sorprese naturalistiche più belle della giornata. Si tratta di un giardino in stile giapponese basato sui panorami del Monte Lonshu, in Cina, uno dei luoghi più importanti per la nascita del Taoismo. Il giardino fu dimora della famiglia Shimazu fin oltre la Restorazione Meiji. Fu costruito nel 1658 da Mitsuhisa Shimazu e poi ampliato da Yoshitaka Shimazu nel 1736 con piante e materiali provenienti dalla Cina via Okinawa. Durante l’età moderna il Sengan-en ha ospitato moltissime figure illustri, tra cui il principe Giorgio di Grecia (1891) e Edoardo VIII (1922).

Ma ciò che colpisce, più delle persone, sono i luoghi. Il giardino infatti ha una vista privilegiata anche su Sakurajima, oltre che un sentiero di trekking che si avvolge sulle pendici settentrionali dello stesso (chiuso per colpa del maltempo dei giorni precedenti). Ciononostante la varietà di paesaggi è netta, la composizione del giardino fluida e rigogliosa. Per non parlare della splendida dimora costruita al suo centro, che attraeva sia per la sua bellezza sia per l’importanza politico-sociale che Nariakira gli aveva fatto acquisire.

Panchine (ovviamente vuote) che guardano al futuro
Il torii del Tsurugane Shrine, proprio accanto al Sengan-en
Honden dello Tsurugane Shrine
Questo cancello indicava l’ingresso negli spazi adibiti a dimora, affari e divertimento della famiglia Shimazu
Giochi d’acqua, di roccia e di vegetazione
Il Neko Shrine (猫神社), all’interno del Sengan-en. Verso la fine del XVII secolo Yoshihiro Shimazu avvia una spedizions per ordine di Hideyoshi verso la Korea. Porta con sé 7 gatti che si diceva potessero fargli capire l’ora del giorno solo guardandoli negli occhi. 5 di essi morirono in Korea ma 2 tornarono vivi e furono seppelliti qui.
Il continuo fumo del Sakurajima, oltre i 1117 metri di uno dei vulcani più attivi della zona. L’ultima eruzione risale al 1917.
Le ceramiche di cui vi parlavo, finalmente posso farvele vedere
Sono rimasto colpito da questa foto, soprattutto dalla donna al centro. Mi ha dato l’idea di nascondere una bellezza nostalgica, preziosa e privata…
Rigogli e resti dell’era Taisho. Questa foto sicuramente piacerà alla mamma

Torno verso il centro della città costeggiando il mare. Una strana aura pervade il mio camminare. Siamo alla fine. Non ancora. Ma ci siamo molto vicino… Il vento di settembre, del mio trentesimo settembre non fa altro che accentuare questa sensazione di bilico romantico e nostalgico. Che si completa con l’arrivo all’Ishibashi Memorial Park. Questo parco attraversato dell’asfalto, è costruito sulle rovine del Tofokuji Castle e ha al suo interno anche un memoriale per la Seinan Civil War che altro non è che un altro nome della Satsuma Rebellion.

Un bel lungomare, direi
Monumento ai 13.240 caduti della Satsuma Rebellion
Uno dei 3 rimanenti Gosekkyo (五石橋, lett. 5 ponti di pietra), costruiti da Shimazu Shigehide, sul finire del XIX secolo.
Yasaka Shrine, accanto al memoriale
Nishidabashi Gate
Vicini al porto di Kagoshima

Passeggio col tramonto vicino e mi ritrovo di nuovo al punto di partenza. Stavolta però faccio una deviazione a destra per andare verso il castello di Kagoshima e le sue mura, che nascondono una bellissima storia. Infatti non vi è mai stato una vera e propria fortezza a Kagoshima. Nariakira diceva infatti che “il castello della città sono i suoi abitanti”. Con questa fiducia, il castello consiste (e così è sempre stato) soltanto in una cinta muraria ed un cancello d’entrata, che oggi conduce ad una delle parti culturali della città (all’interno infatti vi sono altri musei, biblioteche, istituti di cultura e anche una scuola media/superiore).

Quando il sole inizia a spargere buio invece che luce, senza saperlo mi ritrovo non solo vicino al mio albergo ma nel bel mezzo del quartiere di Tenmonkan (天文館), che nonostante l’uso di kanji altolocati (天 indica il cielo, l’imperatore o simili, 文 ha a che fare con la cultura) è in realtà oggi occupato da un bellissimo parco recentemente rinnovato e da parecchie attrazioni a luci rosse, oltre che a ristoranti e karaoke nei quali “consumare” le varie pietanze che la notte offre.

Intrecci di fili e storie prima che inizi una festa a cui non sono ancora invitato…

Mi accodo alla linea della reception, alle spalle le luci rossastre sporche di vita e abbandono, solitudine e amore, le ultime della notte di Kagoshima…

Nokogiriyama d’Inferno e Ritorno

Di Simone Arcigni

Non credo più di riuscire a vivere un weekend di riposo (tra l’altro allungato dal Sports Day che si terrà lunedì 9 ottobre) in maniera normale.

Quando i miei colleghi mi hanno chiesto cosa avrei fatto, al solo pensiero di dire “rimanere a casa”, sono stato male. Continuo a credere che l’unico modo per stare tranquillo sia effettivamente quello di avere qualcuno al mio fianco che controbilanci i miei estremi con un po’ di sana (si spera romantica e passionale) sedentarietà. Ma per ora, come potete immaginare, quel qualcuno ancora non c’è, e quindi avrete già forse intuito che non vi sto scrivendo da casa, bensì mentre sono in viaggio.

La tappa di questo sabato appena trascorso è molto più vicina delle altre, ma per la particolarità del luogo, essendo nelle zone meno collegate dalle linee ferroviarie, ci ho impiegato 3 ore (one way) per raggiungerla.

Parto da casa alle 5 e 30, senza aver quasi dormito. O meglio, sono riuscito a chiudere gli occhi per più di mezzora senza svegliarmi per poi però svegliarmi. Moltiplicate questi passaggi per due o tre volte ed avrete la descrizione temporale e qualitativa del mio sonno degli ultimi 7 mesi. Ancora non capisco come faccia a mantenere questo ritmo.

Mentre il treno che mi porterà verso Tokyo, poi fino a Chiba, sfreccia tra le campagne ancora immerse in un sacro silenzio, io lascio che la dolce musica di sottofondo nelle mie orecchie mi rilassi quel tanto che basta da evitare di pensare alle pene del cuore.

Una volta che però le nuvole si sono diradate ed il sole inizia ad affacciarsi sul mondo, quando ormai sono le 9, sono costretto a spogliarmi di qualsiasi armatura antropica, sulle soglie della stazione di Hama-Kanaya (浜金谷駅).

Da ora, saremo solo io, molte sorprese, molto verde ed anche un buon quantitativo di gradini.

Dalla stazione di Hama-Kanaya vi sono due modi per raggiungere il luogo in cui sto andando: attraverso una seggiovia che taglia il Monte Nokogiri (鋸山, lett. Montagna della sega) nel mezzo, oppure a piedi, passandoci all’esterno, in tunnel poco illuminati e senza marciapiedi (perché le persone normali prenderebbero la seggiovia).

Nella mia immensa compassione, insulto ridendo tutti coloro che deviano dalla strada principale per prendere la seggiovia, e mi immergo nei giochi di luce e buio dei tunnel scavati nella montagna, il mare della Baia di Tokyo gonfiato dal vento sempre più insistente.

Finalmente, dopo circa 45 minuti, un cartello mi indica che l’ingresso è vicino, il Nihonji (日本寺) è a solo pochi gradini da dove mi trovo. Vengo accolto inaspettatamente da un Niomon bruno-rosso immerso già nel verde della montagna, ed ancora più inaspettatamente da un giardiniere che, interrompendo le sue attività, si avvicina e mi chiede se voglio entrare.

Rispondo affermativamente, pronto con il portafoglio in mano, e scopro che non solo quest’uomo fa il manutentore di questa zona ma anche da biglietteria ambulante. Si dimostra, nonostante l’essere indaffarato, molto gentile. Ci fermiamo a parlare della mappa, ascolto i suoi consigli su come intraprendere le salite, mettendomi in guardia sulla difficoltà del sentiero.

Lo saluto, scettico (sapete che i giapponesi tendono a esagerare tutte le sensazioni fisiche e morali, escludendo l’amore ovviamente), e sparisco nel verde che inizia prepotente a prendere il sopravvento sulla tavolozza dei colori.

Nonostante mi aspettassi una salita più brulla, meno curata, sono piacevolmente sorpreso di incontrare un sentiero ben tenuto, interamente di gradini di pietra.

Passato un tempio Inari (Kenkoinari 乾坤稲荷) ed un Kannon-do (大黒堂, Daikoku-do), che ospita con una riproduzione in legno dei Juunishinsho (十二神将), compio l’ultima leggera rampa di scale verso quella che sembra uno spazio aperto sulla collina.

Sulla destra, la calma imponente, lo zelo sacro del colossale Daibutsu (大仏) in pietra mi lascia senza parole. Ed è a questo punto che credo sia arrivato il momento, seduto sotto una tettoia di legno all’ombra della statua, di parlarvi del luogo del viaggio di oggi: il Nihon-ji.

Questo tempio buddhista si trova sulla parte occidentale del monte Nokogiri, che a sua volta si sviluppa su tre province nella prefettura di Chiba, dalla parte opposta della baia di Tokyo.

La zona ha due storie separate che però si intrecciano. Una riguarda il tempio e l’altra riguarda la montagna stessa. Visto che la storia che avvolge la montagna è più visibile sul lato opposto, quello orientale, ora vi parlerò della storia del tempio.

Costruito nel 725, dall’imperatore Shomu, nel periodo Nara, fu affidato a Gyoki (668-749), il primo monaco che il tempio abbia mai conosciuto ed ancora oggi si pensa sia l’unico tempio a poter essere definito chokugansho, ovvero edificato per ordine diretto dell’imperatore.

In quel periodo il tempio era composto da 19 edifici ed abitato da 100 monaci. Nell’857, dopo un viaggio del monaco Ennin, il tempio passa dalla setta Hosso a quella Tendai. Il tempio però cade in rovina fino al 1181, quando il neo Shogun Yoritomo decide di costruire altre statue e lecture hall sulle pendici della montagna.

Purtroppo però gli sforzi non durano molto. Nel 1331 la maggior parte degli edifici viene distrutta da un incendio e nonostante nel 1345 si provi di nuovo a ricostruirli, il periodo Sengoku e i suoi continui conflitti rendono arduo il compimento di questo buon proposito. Durante il periodo Momoyama, il clan Satomi prende il Nihonji sotto la sua protezione, trasferendolo nel 1647 dalla setta Tendai alla Setta Soto.

Nel 1774 vi è la svolta, sotto lo shogunato Tokugawa. Il priore Guden santifica il monte Nokogiri donando al tempio e all’intera area un’aura mistica che prima mancava. Il Daibutsu, dove sono ora, la parte forse più famosa dei complessi del tempio, e le Rakan Arhat statue che pervadono i sentieri intorno ad esso, vengono costruite proprio in seguito alla decisione di Guden.

Immagine che è diventata di diritto il mio savescreen. La sensazione di pace e di calma nonché di superiorità è assoluta e chiaramente percepibile.
Il Daibutsu è enorme. Alto 31 metri (il doppio in più del Grande Buddha di Nara al Todaiji e del Buddha di Kamakura al Kotokuin) raffigura Yakushi Nyorai, Buddha della guarigione spirituale e fisica.

Nel periodo cosiddetto “della distruzione di Buddha”, il Haibutsu kishaku (廃仏毀釈), dopo la Restorazione Meiji, il tempio affronta gli ultimi e pesantissimi scempi. Le hall vengono distrutte e le migliaia di rappresentazioni dei Bodhi decapitate. Nel 1939 anche un terremoto infierisce sul tempio, scatenando un incendio che rade al suolo ciò che rimaneva degli edifici del Nihonji.

Nel 1989, viene regalato al tempio un Bodhi tree dal vice presidente dell’India, come gesto di fratellanza religiosa e spirituale tra le due nazioni, incarnato soprattutto dallo spirito del Nihonji.

Nel 2007 e nel 2009  si è ripreso a costruire, o meglio, distruggere per migliorare, e tuttoggi, anche se non me lo sarei mai immaginato, la meta è diventata molto più turistica del previsto, attraendo non solo giapponese ma anche coreani, cinesi e qualche sparuto caucasico (tra cui il sottoscritto).

Avendo letto questa storia, tra i pannelli introduttivi, mi addentro nella montagna ed i suoi comodi scalini. Ciò che quindi vado a esplorare non è un tempio come lo si può immaginare. È più un luogo sacro che segue i confini della montagna e che sviluppa la sua forza spirituale dalla montagna stessa. Non troverete edifici; sono le insenature nella vegetazione ad essere dimora di tutte le statue (più di 2000) disseminate per le pendici orientali del Nokogiri.

Una delle statue meglio conservate. Impossibile avvicinarsi oltre…

Ad ogni diramazione, la strada conduce in un luogo segreto, diverso dal precedente, immerso nell’ombra e nell’altitudine, nella storia e nel silenzio, interrotto soltanto dai tanti bambini curiosi che affrontano coraggiosi l’ascesa.

Noto però che l’atmosfera si incupisce a volte da una sensazione più orrifica nel vedere le teste mozzate, ma non tanto perché sono mozzate ma perché nel tentativo di sistemarle, le teste sono state messe sui busti senza preoccuparsi di forme e colori delle due parti, andando a creare degli spettacoli da circo degli orrori, una sorta di mistico orrore, di sacralità temuta, riacquistata e perduta.

Una volta usciti dalla coltre di statue e di roccia, vi è uno spiazzo (adibito alla discesa di chi decide di salire con la seggiovia) e poi due sentieri. Prendo quello che mi è di fronte, e continuo la salita finché non raggiungo il Jusshu Ichiran Observatory, un punto panoramico sulla zona di Chiba e, di conseguenza, con visuale fino a Tokyo, Yokohama ed Hakone.

Il puntino bianco è la Tokyowan Daikannon, una statua del Kannon Buddha di 30 metri, completamente bianca.

Nel cambiare sentiero, la folla si fa più intensa, andando a rompere (bene più delle statue malmesse dei Buddha) l’atmosfera del luogo. I giapponesi che mi sono affianco, di ogni età, sanno dire solo 3 parole: すごい (sugoi, fantastico, incredibile), きつい (kitsui, complicato, difficile, faticoso) o una combinazione delle due (すごいきつい, estremamente difficoltoso). In una delle scalate più semplici (perché con molti aiuti e con poco sterrato), mi vedo giapponesi morenti col fiatone a lato della salita. E mi sale il nervoso. Atavico, al limite dell’odio razziale. Non sopporto quando come automi ripetono le stesse parole, soprattutto in un momento in cui non ne vedo il bisogno. E fa riflettere come l’unica lamentela della giornata siano alcuni comportamenti degli umani che mi circondano. Se non ci fossimo…

Con questi pensieri continuo la scalata fino ad arrivare al Jikoku Nozoki, (地獄のぞき), lett. “La vista dell’Inferno”, uno strapiombo tra il verde e le rocce, il punto naturalistico forse più famoso dell’intera Nokogiriyama.

Scendo dal picco, torno verso la foresta, ma non per molto. Le ali della montagna si aprono in mezzo al nuovo sentiero rivelando un’altra meraviglia: una raffigurazione del Buddha Kannon (della misericordia) scolpita nella pietra, la stessa pietra che sarà protagonista della seconda parte della scalata, quella a ovest. Anch’essa alta più di 30 metri, sembra essere stata scolpora più recentemente rispetto al Buddha dalla parte opposta, ma non si sa una data precisa. Indipendentemente dall’età dell’incisione, continuo a meravigliarsi di come un luogo così fosse a pochi passi da casa…

Tunnel di avvicinamento al Kannon. Come potete vedere sui lati, vi sono netti segni di intervento umano.
I 30,3 metri del Kannon Buddha e la sua dimora nella montagna…

Una volta ammirata la statua, la montagna si fa meno “umana”, spariscono i gradini di pietra, e si inizia una vera e propria seconda esperienza storica, attraverso i sentieri che tra il 1868 e il 1926 sono stati le vene di trasporto per i massi (boshu ishi) che provenivano dalla miniera proprio dietro il Nihonji, sul lato opposto.

Durante le numerose salite e discese, si può vedere come la montagna sia stata modellata in modo da servire lo scopo della costruzione e dell’innovazione. Gli angoli retti nei crostoni sotto la montagna, i segni degli scavi sulle parti più alte, i sentieri praticati dalle donne (shakiri) per trasportare fino a 240kg di pietre a valle per volta, i vecchi macchinari arrugginati usati per intagliare e trasportare i blocchi di boshu… Ogni dettaglio racconta la storia, un’altra storia, condivisa con le statue sacre della parte occidentale del monte Nokogiri, se vogliono “modellate” anch’esse dal ritmo di un tempo che passa e che cambia inesorabile.

Jigoku Nozoki dal basso
Più difficile, ma non difficile
Macchinari (Toyota) per la lavorazione dei blocchi di pietra
Quasi da set di “Alien”…
La parte della montagna scavata che vediamo in “superficie” è solo un piccolo esempio di quanto invece si sia scavato in profondità…

E anche in questa parte, come nella precedente, i punti di interesse storico sono moltissimi, ma non mancano anche punti di osservazione magnifici sull’intera baia di Tokyo. Dalla cima del Nokogiri infatti si può vedere fino ad Hakone, e nei giorni più limpidi, anche il Fuji (sapete già che, per una regola non scritta di molti anni fa, a me non è stao concesso il permesso di vedere il Fuji a meno che non ci sia praticamente sotto, unica volta in cui effettivamente sono riuscito a vederlo).

Zona di Motona, sud di Chiba

Una volta uscito dalla foresta, stordito di meraviglia grezza e bellezza mistica, altri 15 minuti di asfalto mi connettono a quello che era stato il mio punto di partenza, dove molte altre persone attendono il treno di ritorno per Chiba e Tokyo. Mi accodo alla fila, musica leggera nelle orecchie, godendomi i raggi del sole di ottobre, un impegnatissimo ottobre pieno di possibilità per brillare…

Shakirimichi, le parti più visibili e meglio conservate di quello che una volta era uno dei sentieri percorsi dalle shakiri per trasportare a valle la pietra scavata
La stazione che mi ha accolto, Hama-Kanaya

L’Unico Posto al Sole (Parte II)

Di Simone Arcigni


Il mattino seguente, ispirato da un vento frizzante, lascio l’albergo in direzione Karatsu (唐津). Questa città si trova a circa un’ora e venti di distanza da Saga, verso sud-ovest, e si affaccia sulla costa.
Mentre sono sul treno, uno dei più belli che abbia mai visto (le fiancate erano dedicate ad un videogioco dei primi anni 2000, chiamato Romancing Saga, e la prefettura ha giocato sul nome inglese “saga”, come se fosse riferito alla prefettura, dipingendo vari modelli di treni con i personaggi in grafiche 8bit del videogioco), ho un mood che varia spesso.

Mi ero promesso di non complicarmi troppo la vita sentimentale, soprattutto con il nuovo lavoro, soprattutto con nuove persone al lavoro. Mi ero scritto in petto tutte le buone intenzioni – essere più leggero, non rimanerci male in caso di rifiuto, essere comprensivo, ma vedendomi riflesso nei vetri del treno diretto a Karatsu, mi sono reso conto che, nonostante nutrissi buone speranze per la buona riuscita del mio invito (perché ancora non era stato preso in considerazione), qualcosa dentro di me mi diceva che non sarebbe mai andata come speravo.

Mi porto pesante questa consapevolezza fino alla stazione di Karatsu, dove però, una volta uscita nel sole delle 9, cerco di riprendere il controllo sul mio battito cardiaco e sul resto della giornata.

La prima tappa è a pochi passi dalla stazione, ed è la Sala delle Esibizioni di Hikiyama (曳山展示場), nella quale vengono conservati i 山車 (dashi, carri), diverse raffigurazioni di animali o personaggi famosi usati nei festival della città. Dal 1603, anno del primo matsuri ad oggi ne sono stati prodotti 13, e nonostante non si potessero fare foto all’interno, all’esterno vi erano delle immagini che illustravano ognuna delle teste che veniva trasportata per le vie della città.

La lavorazione e produzione di questi carri può variare dai 3 ai 6 anni ciascuno

Mi inoltro nelle vie più interne fino ad arrivare all’Hourenji (法連寺, lett. Tempio del cammino della legge), dal quale si sentono le voci dei monaci, nella loro cantilena ipnotica, uscire dall’Honden. Mi prendo qualche minuto per esplorare il tempio, ma anche per sedermi nel suo curato giardino di verde e grigio, ascoltando quelle voci così vicine ma che sembrano provenire da un’altra dimensione.

Poco distante, arrivo in qualche minuto di camminata al Karatsu Tenmangu (唐津天満宮), a metà tra la vegetazione incolta e l’abbandono. Non ci sono segni di uso recente, gli edifici di solito adibiti alle miko o ai sacerdoti per la distribuzione di omikuji sono chiusi con assi di legno. Eppure il tempio è ancora lì, ormai lo è da centinaia di secoli (circa 4). E come succede spesso, l’apparenza inganna. Tutt’oggi infatti il tempio ospita tutti i canonici festival della tradizione shintoista, mostrando vita spirituale e di comunità.

Come ogni Tenmangu, anche qui vi è custodito lo spirito di Michizane, divinità dell’apprendimento.

Il primo edificio che visito che può essere definito “nel centro citta” (prima infatti mi ero allontanato dal centro) è la Karatsu Bank, ad ingresso gratuito. Completata nel 1902, in chiaro stile misto (giapponese e occidentale) grazie all’uso dei mattoni rossi in contrasto con il bianco dei punti di giuntura, questo edificio è opera di Kingo Tatsuno e del suo apprendista Minoru Tanaka, uno degli uomini più di spicco della prefettura di Saga, ed anche del Giappone. Egli infatti è l’architetto che ha progettato e realizzato l’odierna stazione di Tokyo e gli edifici della Banca del Giappone, poco distanti. Nel 2017 viene ascritta al registro delle proprietà culturali importanti della prefettura, trasformandola in un museo che conserva tutto dell’originale struttura per la quale era stata progettata: il counter originale dove si potevano ritirare i soldi, le stanze al secondo piano per i clienti più importanti e perfino il caveau del primo piano.

Le stanze VIP al secondo piano
Il caveau

Dal centro della città mi sposto di nuovo verso l’esterno, verso il mare. Ma prima di incontrare le onde, faccio la conoscenza del tempio più bello della giornata. il Karatsu Shrine brilla regale degli ultimi bagliore del sole d’estate. Ma non solo. Anche dei raggi dell’infanzia. Una volta arrivato infatti, non sono l’unico visitatore. Il tempio è preso d’assalto (ordinatamente) da 4 famiglie, tutte venute per la benedizione dei primogeniti. E questo non fa altro che impreziosire il tempio e il suo ricordo nella mia memoria.

Costruito a pochi passi dal mare, si distingue dal resto della zona per il suo torii imponente, di un bianco accecante, lì dal 755. E’ un Ichinomiya, il che indica la sua importanza culturale per la città ed i cittadini. Non solo nell’Honden ma anche nei templi minori che circodano i precinti del Karatsu Shrine, troviamo più divinità conservate: Sumiyoshi Sanjin è la principale, poi lo spirito di Munetsugu Kanda, al quale viene consacrato il tempio nel XII secolo dopo che altri membri della famiglia Kanda lo ricostruiscono ed infine Mizuhanomekami (deificazione femminile delle onde marine).
E’ la sede del Karatsu Kunchi, punto di partenza del festival più grande della città che si tiene ogni anno il 2, 3 e 4 Novembre, nel quale vengono fatti sfilare per le vie della città e del castello i carri conservati nel museo che ho visto alla mattina. Complice il sole e la presenza di tante famiglie, prego al cospetto dell’Honden col sorriso sulle labbra, sulle ultime code d’estate…

Il primo bianchissimo Torii d’ingresso
Il secondo torii
Karatsu Shrine piena di giovane vita
Honden, nel quale si stava tenendo un rito di benedizione, presente tutta un’intera famiglia

Costeggio il lungomare, finchè non arrivo al parco che ingloba il Karatsu Castle (唐津城). Costruito tra il 1602 e il 1609, sovrasta tutta la zona dalla sua posizione rialzata anche se viene considerato un castello costruito su una piana (hirayamajiro), e fu uno dei punti di controllo dei numerosi clan che hanno controllato la prefettura fino al 1872, anno della sua parziale demolizione. Viene anche chiamato “Dancing Crane Castle, Maizuru-jo (舞鶴城)” o Castello della Gru Danzante. Dopo la battaglia di Sekigahara (1600), Toyotomi Hideyoshi regala un dominio di 123,000 oku a Terasawa Hirokata, che si è distinto in quella battaglia. Dopo essersi allontanato da Nagoya, costruisce il proprio castello a Karatsu, ma non ne rimane il signore a lungo. Durante un periodo di meno di cento anni, le famiglie che entrano in possesso del castello sono ben 4 (Okubo clan, Matsudaira clan, Mizuno clan, ed infine Ogasawara Clan), la quale mantiene il controllo del castello dal 1762 fino alla sua demolizione ordinata dopo la Restorazione Meiji.

Il castello si sviluppa in armonia con la baia di Karatsu, dalla quale prelevava acqua e risorse, diviso nel Sannomaru (a ovest), il Ninomaru (sede degli alloggi del Daimiyo) e l’Honmaru invece rivolti più a sud, per meglio controllare la costa. Dall’alto, la vista permette di vedere la baia, la pineta (che visiterò più tardi) e la città di Karatsu in una sola occhiata. Il resto lo fa la struttura in sé del castello e la cura nella ristrutturazione, avvenuta nel 1966, che ha implementato nei 4 piani più bassi, moltissime reliquie e cimeli del passato della città.

Il lungomare poco prima del castello
Come a Kumamoto, alcune parti del castello originale sono “allo scoperto” per permettere una visita ancora più immersiva
Set per il tè, uno dei pochi pannelli visitabili, al quarto piano
Honmaru visto dall’alto
Sud del castello. Sulla destra potete riconoscere la strada dritta circondata di verde da cui ho scattato la terza foto di questo blocco
Karatsu dall’alto

Come una sentinella che vede un pericolo e si avvicina per controllare, incurante di ogni altra cosa, scendo dalla mia posizione rialzata e torno al livello del mare. Poco più a nord infatti vi è la Niji no Matsubara (虹の松原, pineta dell’arcobaleno), chiamata così perché, seguendo il naturale taglio della baia di Karatsu, delinea una linea costiera aggiuntiva, di sabbia e di verde intenso, che ha la forma di un arco, di un arcobaleno. Il profumo di resina, nella parte più intricata e meno turistica della pineta è intenso. Mentre cammino tra gli aghi e la sabbia, al contrario delle sensazioni della mattinata, mi sento bene, mi ritrovo positivo riguardo le mie questioni sentimentali (quanto mi sbagliavo).

Veduta del castello di Karatsu poco prima di entrare nella pineta
L’ultima veduta di Karatsu

Rimango tra il mare e la pineta per qualche minuto, le mani immerse nel mare, per sentire, per tastare, per poter dire di aver provato davvero, di aver viaggiato davvero fino al confine di Karatsu e del Giappone, anche se un vero confine non c’è.

La via del ritorno è dolce, ed io d’amaro la bilancio benissimo. Torno verso la stazione quando ormai sono le 3 del pomeriggio, le vie della città ancor più deserte di come le ho trovate la mattina, cosparse uniformemente di uno strano silenzio.

Sul treno, con una grafica diversa disegnata sul lato, non siamo in molti. Oltre il corridoio, una gyaru si sistema il trucco, poi applica dei cerotti ai piedi denudati, prima di mettersi le cuffie ed isolarsi dal mondo. La guardo più del paesaggio che mi scorre vicino, più del dovuto, di nascosto. Dal viso particolare, la pelle artificialmente abbronzata, ha un fisico non prorompente ma sinuoso nella sua semplicità.

Una volta giunto di nuovo a Saga, prendo il Kamome diretto a Fukuoka, dove prenderò un Nozomi che mi rispedirà in sole 5 ore e mezza a Yokohama. Sul treno che mi porta verso nord, non sono fortunato quanto a Karatsu. Nel mio raggio visivo non ho dilettevoli distrazioni femminili da ammirare. Mi concentro allora sullo scrivere e sul buio che scende dentro e fuori. Non so per quanto ancora debba convivere con questa sensazione di compiuta incompiutezza, ma è meglio trarne qualcosa di positivo, se si riesce, come ad esempio inchiostro e poesie.
Mentre scrivo, un po’ di penna un po’ di cellulare, il Giappone mi passa di fianco, e mi saluta di migliaia di inchini che, mi convinco, solo io riesco a vedere…

L’Unico Posto al Sole (Parte I)

di Simone Arcigni

Lungi da me fare dell’ironia o dei riferimenti voluti alla serie TV italiana. Il titolo dell’articolo rappresenta la pura e semplice verità.

In un agosto e in un settembre che hanno inondato letteralmente ogni parte del Giappone, mi sono ritrovato a dover viaggiare seguendo il ritmo atmosferico (oltre a quello del nuovo lavoro). E l’unico luogo che risultava al riparo da qualsiasi pericolo metereologico (pioggia, tifoni o allerte simili), l’unico luogo che mostrava una speranza di sole, è diventata una scelta “naturale”: Saga (佐賀).

Saga si trova tra Fukuoka e Nagasaki. Tradotto: 1122 chilometri da casa andando verso sud, 5.34 ore di treni. E senza la Relay Kamome (una delle ultime linee aggiunte, penso proprio l’anno scorso), il tempo per raggiungere la città capoluogo della prefettura sarebbe aumentato di almeno un’altra ora.

Ma con le nuvole dei tifoni ormai alle spalle e con la certezza di non trovarne a sufficienza per preoccuparsi al sud, parto fiducioso alle 6.42 di un fresco sabato mattina.

Il viaggio è meno stancante del previsto, anche grazie alla nutrita quantità di fauna umana che impreziosisce il tragitto. Una coppia in particolare attrae la mia attenzione. La donna è talmente stanca che il marito è obbligato ogni tanto ad alzarsi per permetterle di sdraiarsi sul secondo seggiolino. Ma quando sono insieme, lei non manca mai di allungare la mano nel sonno per cercare quella del compagni. Mentre fantastico sui prossimi obbiettivi di vita, raggiungo la stazione di Saga.

Il sole di mezzogiorno del sud mi coglie sempre impreparato. Per evitare di perdere ritmo, decido di rimanere in maniche corte fino alla prima tappa, l’Ushijima Tenmangu (牛島天満宮). Nonostante abbia lo stesso nome di uno dei templi di Tokyo visitati durante i miei “primi” gennaio, l’atmosfera del tempio di Saga è completamente diversa. È come se il calore del sole avesse reso più sbiadite e più vivide allo stesso tempo tutte le strutture che circondano il tempio, a partire da una canfora centenaria caduta, che a mo’ di ponte, affianca quello di pietra che introduce al tempio dopo il torii d’ingresso. Ma le sorprese che questa canfora ha in serbo per me non sono finite. Una volta guardatomi intorno infatti, noto che la canfora è aperta dove dovrebbe avere le radici (che ora ovviamente non ha più in quel punto). E nell’apertura vi è una ringhiera. Sì, una ringhiera. Mi accovaccio per spiare dentro il cuore dell’albero, avvolto dalla corteccia. Scopro che all’interno del fusto, di un diametro di 7 metri ma di un’altezza (visto che l’albero è in orizzontale) che non supera i 30 cm, vi è un passaggio percorribile a gattoni ed un piccolo tempio incastonato nel fondo, sospeso tra la corteccia ed il fiume sottostante. Affascinato, cerco di scoprirne di più…

Come inizio, non c’è male…
In ginocchio…

Nelle vie secondarie dietro l’Ushima Tenmangu incontro altri templi più piccoli, ma ognuno di questa sembra avere abbastanza spazio da accogliere canfore centenarie. È davvero la parte naturale più impressionante della città, per ora. Tra questi, lo Yasaka Shrine, che nonostante le dimisioni ridotte, può vantare una canfora di 600 anni che sporge dai suoi precinti, creando un ponte tra l’edificio di fianco e lo spazio aperto prima dell’Honden.

A pochi passi, tornati sulla strada principale, arrivo ad uno dei templi più importanti della città e della prefettura, il Saga Jinja. Il tempio è dedicato a Nabeshima  Naomasa e Naohiro, decimo ed undicesimo lord (gli ultimi due) del dominio di Saga, per il cui ricordo sono stati installati due cannoni (capirete perché una volta visitato il museo del castello di Saga). Il regno degli ultimi due lord va dal 1831 al 1871. Il tempio è quindi di costruzione davvero recente, in contrasto con la sensazione di antico derivata dalle canfore della zona e dalle strutture di legno scuro che ne occupano i precinti.

Accanto al Saga Shrine, o meglio, negli stessi spazi, si trova il più piccolo Matsubara Shrine, che accoglie le anime degli avi del clan Nabeshima, il clan che come avrete capito governa il dominio di Saga sin dal loro insediamento, nel XVII secolo.

A differenza dell’aria imponente delle strutture del Saga Shrine, il Matsubara si crogiola in un’atmosfera più rilassata e tranquilla, circondato da fossati di pietra, tra carpe koi e i riflessi delle canfore.

Torii del Saga Shrine
Altre splendide canfore sacre
Honden del Matsubara Shrine, proprio accanto al Saga Shrine

Avendo parlato della famiglia Nabeshima, la tappa successiva, quasi farlo apposta, è il loro quartier generale, il castello di Saga (佐賀城).

Abituato negli ultimi viaggi (anche quello del giorno successivo) a castelli costruiti su rocche o rialzamenti, mi trovo spiazzato vedendo che questo invece è un hiraijiro, ovvero un castello costruito su una spianata, circondato da mura. Una volta fatto lo slalom tra le statue dei Nabeshima e un gruppo di giapponesi in visita turistica, arrivo alla parte oltre le mura.

Il castello viene costruito tra il 1602 e il 1611, come simbolo definitivo del potere acquisito sul dominio dalla famiglia Nabeshima conseguente all’insediamento dei Tokugawa come Shogun. Nel corso dei secoli il castello viene ricostruito più volte in seguito ad incendi (1728, 1836) e rinnovato nel 2004.

Ad oggi, nei corridoi degli edifici rimasti, si sviluppa il Museo del castello, il quale, nelle ampissime sala intonse rispetto a quando furono costruite, ci illustra non solo la storia del castello ma anche la forza ed il vanto della prefettura di Saga: la laboriosità e la grande abbondanza di materie prime.

Dovete sapere infatti che Saga, da sempre, è stata una delle fucine artigianali più instancabili del Giappone, con produzioni di ceramiche, (sede anche del primo market exchange di riso), navi a vapore, cere e ferrovie che sono poi servite sia all’interno della nazione (i cannoni e la navi a vapore, come le parti per le ferrovie sono state inviate a Yokohama e Shinagawa per prepararsi ad un eventuale attacco della flotta minacciosa americana nel 1854) sia all’estero (durante l’Expo del 1867, Saga partecipa con 5 inviati portando le sue ceramiche come prodotto tipico di alta qualità della loro terra).

L’unico cancello d’ingresso rimasto è anche il principale
Le sale del Castello di Saga, come le avremmo visto 500 anni fa

Dall’altra parte della strada, trovo il Saga Prefectural Art Museum, sviluppato su 3 piani, due dei quali interamente dedicati alle opere di artisti della prefettura, alla sua storia e ai traguardi artistici e sociali raggiunti (mostra di Okada), mentre l’ultimo è dedicato alle esposizioni speciali o temporanee. Nel mio caso, alle opere surreali di Matsuo Ikeda (池田龍雄, 1928-2020). L’artista contemporaneo divide la sua carriera artistica in due sezioni (immagino involontariamente); nella prima parte della sua produzione vediamo disegni a penna e matita che rappresentano con figure antropomorfe ma dalle forme irreale le assurdità della società e della vita quotidiana, probabilmente frutto dell’arruolamento obbligatorio al quale Matsuo è costretto all’età di 15 anni. La seconda parte invece è incentrata su dipinti più “ampi”, meno claustrofobici, dove tramite bellissime forme circolari, Matsuo veicola i misteri della vita e dell’universo, in particolare nella bellissima serie Brahman (la mia preferita). Per l’artista, l’arte, l’essere pittore significava porsi in guerra con il proprio essere, far parte di una lotta che però doveva avere le fattezze di un gioco, così da poter liberare il proprio subconscio e sentirsi più leggeri. Consiglio di recuperare proprio le serie Brahman perché meritano davvero almeno un’occhiata.

Scultura + soggetti classici = perfezione
Murale fotografabile al secondo piano del Museo

Una volta lasciato il museo costeggio il bellissimo giardino (foto precedente) che lo avvolge sul retro, tra statue e vegetazione, per arrivare ad un’altra delle scoperte più interessanti della città: l’Okuma Shigenobu Memorial Museum. Come anche io ho fatto, vi starete chiedendo chi è questo rispettabile signore. Ebbene, è il fondatore della Tokyo Senmon Gakkō, oggi conosciuta come uno degli atenei universitari più importanti della nazione (nonché uno dei miei luoghi preferiti): la Waseda University.

Shigenobu nasce e studia a Saga. La sua visione personale, sociale e politica si sviluppa tra le strade tranquille della città di campagna prima di approdare nel centro della nazione, in una Tokyo in fermento, sempre di più divisa tra chi propendeva per un’apertura volontaria all’esterno dopo quella forzata di Perry, e chi invece sosteneva che fosse meglio rimanere ancor più fermi e solide sulle proprie radici e tradizioni. In questo contesto, Shigenobu si mette in mostra, sia per la sua ottima retorica (con la quale riesce a ribaltare varie discussioni, anche con rappresentanti esteri) sia la sua maniera “globale” di parlare. Una delle caratteristiche del suo discorrere (che si può apprezzare negli audio che risuonano nel museo) era l’uso della locuzione “de aru, である”, un modo desueto ma ancora ascoltabile per il verbo essere, che dà però un senso maggiore di appartenenza ed unione. Shigenobu era talmente solito usarlo, che in alcuni discorsi lo ripeteva più volte di seguito, (であるんである, de arun de aru) come a sottolineare l’importanza dell’essere ciò che si era e dell’esserlo insieme. Non potendo fare foto non posso veicolare esattamente il pensiero e le citazioni di Shigenobu, ma vorrei fare del mio meglio per condividerne due in particolare con voi. La prima riguarda le donne. Durante un intervento al governo (nelle 6 volte in cui ha ricoperte cariche di questo tipo) Shigenobu afferma che se il Giappone vuole vivere pacificamente e globalmente come parte integrante di un nuovo mondo che si prefigurasse di essere il più possibile avanzato, una delle parti fondamentali era quella di emancipare la donna e di permetterle di votare. Questo prima ancora che scoccasse il XX secolo.

Un altro esempio della sua ferma visione progressista, rivolta alla cultura e all’uguaglianza, la si può trovare nel discorso inaugurale della Waseda. Per Shigenobu, l’unica salvezza del mondo è la verità, qualcosa che non può essere macchiato. Ed il modo migliore per coltivarla è per tramandare all’interno e all’esterno della nazione, per Shigenobu era uno soltanto: bisognava creare atenei ed università in grado di adempiere a questo onore ed onore. La culla per il miglioramento del mondo doveva essere l’istruzione, ed in particolare quella universitaria.

Vuoto di fronte al pieno…
Esterno del Museo. Purtroppo le foto erano proibite all’interno
Sala da gioco della residenza personale di Shigenobu. Al centro, una scacchiera da go.

Mi spingo fuori dalla parte più visitata della città per esplorare la zona universitaria. Come di consueto i pochi grattacieli si appiattiscono, il verde delle campagne prende il sopravvento mentre il sole inizia a perdere intensità ed acquisire nostalgia nel suo colore più profondo.

Cancello di ingresso al Keiginji
Sono diventato bravo a fare foto centrate, non c’è che dire
Una strana pace, divisa per sei…
Il bellissimo murale esterno dell’Honjoji, proprio di fronte al campus dell’università di Saga
Torii dell’ Hizennokuni Ise Shrine (肥前国伊勢神社). Letteralmente “tempio della regione di Ise Hizen” questo tipo di templi viene chiamato Sōja (総社), ovvero templi che racchiudono lo spirito che impersonafica/la deificazione dello spirito della regione.
Honden dell’Hizennokuni Shrine

Mentre torno verso la stazione, dopo aver visitato il Gokoku Shrine della prefettura di Saga e il Ryuzoji Hachiman Shrine, è la volta della visita allo Yoka Shrine (與賀神社), uno dei templi più antichi della prefettura. È stato costruito nel 564. Il tempio è stato uno dei più venerati dalla famiglia Nabeshima lungo il suo dominio, facendone accrescere la popolarità ed il rispetto anche tra gli abitanti della città, che ne conservano un’immagine privilegiata ancora oggi.
Ciò che colpisce del tempio, anche grazie alla luce del sole nel momento in cui l’ho visitato, sono sicuramente il Romon di rosso acceso, l’Haiden e l’Honden che invece brillano di scuro timore, e le tre canfore millenarie (1100, 1100 e 1400 anni) che sembrano davvero essere in grado di sconfiggere il tempo, imbrigliarlo tra i loro rami. Torno verso la zona centrale della città, incontrando un bellissima piazza con le statue dei personaggi storici più importanti della prefettura.

Cancello d’ingresso alla luce del tramonto
Il bellissimo viale di avvicinamento all’Honden del Yoka Shrine. Ai lati, due delle tre canfore millenarie. La divinità principale è Yodohime no Kami, nonna dell’imperatore Jimmu, antica personificazione del mare anche se il tempio contiene almeno altre 6 divinità maggiori.
1400 anni di canfora. La foto purtroppo non rende l’idea di quanto imponente sia dal vivo…

Oltrepasso la stazione, evito di cadere nel tranello del primo APA Hotel (vicino alla stazione ci sono due APA Hotel, il mio era il secondo venendo da sud). Le vie attorno alla stazione, visto che è sabato, iniziano a riempirsi di ragazzi pronto alla festa del villaggio, alcuni che tornano dal pomeriggio fuori, altri che invece vengono spediti a divertirsi sul far della sera. Eppure ho sempre la sensazione che alcuni luoghi, nonostante il numero di persone aumenti, rimangano sempre e comunque, in qualche modo, vuoti. O forse sono solo io il problema, che cerco di trasferire le mie sensazioni interiori anche all’esterno. Raggiungo l’albergo, mi siedo sul mio letto morbido di una normale camera di un anonimo secondo piano e guardo per un po’ il soffitto bianco, controllando con le mani che la pelle non sia troppo rossa.

Nella completa oscurità della notte imminente, attorno a me e all’albergo, cerco in qualche modo di non pensare come un uomo ma come un pioniere, come una figura importante, con uno scopo di vita superiore. Leggo le ultime informazioni sulla schedule del giorno dopo e vado a dormire, preparato più che posso al secondo giorno nella prefettura di Saga…

Sulle Rive del Biwa (Parte II)

Nonostante i 36km chilometri del giorno precedente e la notte ancora prima quasi senza sonno, non riesco a dormire umanamente. Mi stanco di girarmi nel letto, esco dall’albergo alle 6 e saluto Hikone.

Il lago Biwa è il più grande del Giappone. Prende il nome dallo strumento tradizionale giapponese (biwa), di cui il lago ricorda la forma. Si ritiene che il lago sia uno dei più antichi del mondo, formatosi circa 4 milioni di anni fa. Quest’aura d’antico mistero, ha ispirato nel tempo moltissime storie letterarie, data anche la vicinanza ad un centro culturale importantissimo quale Kyoto. 235 chilometri di costa, famose non solo per le moltissime attività che si possono svolgere ma anche per i suoi 8 panorami (琵琶湖八景, Biwa-ko Hakkei):

Le barche al ritorno a Yabasa

Il brillare serale a Seta

La luna d’autunno a Ishiyama

La brezza gentile ad Awazu

La campana serale al Mii-dera

La pioggia serale a Karasaki

Le oche di ritorno attraverso l’Ukimido

La neve a Hira

Tutti questi panorami sono situati nella parte più meridionale del lago, ma è proprio verso dove sto andando. Attraverso il Ponte Biwako ed arrivo alle prime due tappe della giornata quando ancora in giro ci sono solo corvi e falchi: l’Izu Shrine (伊豆神社) e il Mangetsuji (満月寺).

Separato dal resto del caseggiato da un piccolo fossato, viene fondato intorno all’893 sotto sollecitazione di Hieizanmon Hoshobo Shonin, uno dei monaci più importanti di Kyoto in quel periodo. I precinti del tempio oggi accolgono due santuari: quello di Izu e quello di Kanda, il secondo dedicato a Tamayorihime no Mikoto, divinità adorata nel Santuario Kamo Mizu di Kyoto, il quale condivide lo stemma con il santuario in cui sono ora, l’aoi a due foglie. È il modo perfetto per introdurmi alla giornata, e alla sorpresa che vedrò tra qualche passo.

Kaguraden
Honden e Haiden


Attraversata la strada arrivo al Mangetsuji, (lett. Tempio della luna piena). Passato il Sanmon invaso da verdissimi pini, si entra nel tempio. Sulla sinistra vi è il Kyakuden (l’edificio più antico del tempio, 1754) e poco oltre la stanza per le cerimonie del te. Sulla sinistra invece vi è il Kannon-do, che funge da dimora a Sho-Kannon, Bodhi della Compassione. Ma il pezzo forte è poco oltre. Dopo qualche passo nella ghiaia, protetta dall’ombra dei pini, arrivo ad uno dei panorami accennati precedentemente: l’Ukimido (lett. Tempio fluttuante).
La struttura infatti è distaccata dal tempio principale, sospeso nelle acque del Lago Biwa. Esso è collegato al tempio tramite un ponte di marmo ed è dimora di migliaia di statue di Buddha. Grazie alla foschia delle montagne attorno al lago e all’atmosfera che ricorda i dipinti ukiyo-e di Hiroshige, mi allontano da questa realtà per più del dovuto…

Sanmon
Kannon-do
Perfettamente centrato (anche senza luna)

E nonostante torni subito in strada perché il tempo mi è contro in ogni aspetto, so che mi allontanerò dalla realtà ancora di più. Prima però, scopro un altro piccolo tesoro della zona, la cable car di Sakamoto. Costruita a partire dal 1927, la funicolare è lunga 2025 metri, percorsi in 11 minuti e collega il lago all’Enryakuji, uno dei luoghi più sacri del Buddhismo giapponese, dimora appunto dell’Enryakuji (延暦寺), tappa finale della corsa della funicolare.

Il tempio viene eretto tra le foreste dell’Hieizan, uno dei monti più sacri del Giappone, dal monaco Saicho, fondatore della scuola Tendai, la quale si basa sulla tradizione buddhista Mahayana, con evidenti elementi esoterici, a partire dal 788, anno in cui il monaco Saicho stabilisce il distacco di questa scuola in modo netto dalle altre presenti in Giappone, ancora troppo legate alle loro radici tradizionali cinesi.

Questa nuova scuola era basata su due punti cardine: Shinkan-go (pratiche esoteriche basate sugli insegnamenti di Zhiyi, monaco cinese “usato” come punto di riferimento da Saicho dopo il suo viaggio in Cina) e il Shana-go (Buddhismo esoterico, focalizzato sui sutra Mahavairocana, gli stessi della setta Shingon). Per esercitare la sua idea di Buddhismo, nasce appunto l’Enryakuji, arroccato a 700 metri sopra il Biwa. La vista è liberatoria, tesa ad un infinito interiore. In sottofondo la campana della fortuna, suonata dai fedeli, risuona tra i fitti pini. Mi ci vogliono 2 ore per l’ascesa, nella quale incontro tantissimi altri templi. La civilità si vede dalla cima, ma è come osservare un fantasma, un qualcosa di trasparente ed inconsistente. I brividi corrono lungo la schiena ad ogni passo tra le tre aree del tempio (East Pagoda, West Pagoda e Yokokawa), al pari dell’Eiheiji a Fukui. Soltanto per questo tempio, servirebbero almeno due articoli a parte. Cercherò anche grazie alle foto di portarvi con me all’interno dei suoi precinti. Statemi vicini!

Nel 1571, l’Enryaku-ji fu distrutto, partendo da questa, la Main Hall, e i suoi monaci massacrati da Oda Nobunaga (織田信長, 1534-1582) in un progetto politico-militare teso alla riunificazione del Giappone. Molti documenti riportano come Oda fosse molto preoccupato più che altro della forza militare dei monaci, in quanto l’Enryakuji era uno dei pochi templi ad addestrare anche monaci guerrieri (僧兵).
È da qui, Kaidanin, luogo reale e non, che inizia il Kaihōgyō (回峰行, lett. Circondare la montagna). Questa pratica ascetica consiste nel camminare attorno all’Hieizan per 1000 giorni, diluiti in 7 anni, nei quali il monaco dovrò intervallare prove fisiche a studi intensi, meditazione e calligrafia. Il quinto anno è il picco della difficoltà. Il monaco deve allontanarsi dai percorsi e dirigersi verso la montagna, dove rimarrà per 9 giorni senza cibo o acqua, nei quali, sorvegliato da altri due monaci, dovrà continuare senza tregua nella recitazione di mantra di fronte alla nera statua del Fudo-myoo. Dal 1885, solo 46 monaci hanno superato la prova e tra essi solo 3 monaci l’hanno superata due volte. Tra questi, Yusai Sakai ha terminato la seconda prova nel 1987, dopo i consueti 7 anni, all’età di 60 anni.
Zuin-in
Two-storied Pagoda del Zuin-in
Le impalcature all’interno del Konponcha, il quale è comunque visitabile ma nel quale è impossibile fare foto. L’atmosfera al di sotto è surreale. Le colonne nella penombra sembrano ancora più buie, le immagini e le statue di Fudo-myo appena visibili, l’odore dolce dell’incenso misto a quello più pungente dei focolai attorno all’altare principale… Assurdo…
Il Romon della parte meridionale del tempio. Nel 2006 il tempio è stato al centro di uno di uno scandalo intrigante. Una famiglia della yakuza (Yamaguchi-gumi) ha chiesto all’Enryakuji di celebrare funzioni religiose per l’intera organizzazione, facendo riversare 3000 membri della “gumi” tra i precinti del tempio. Nonostante il tempio si rifiutasse di restituire le ingenti somme ricevute come donazione per i servizi offerti, una combinazione di attacchi mediatici e disdegno religioso proveniente dagli altri templi Tendai hanno costretto le maggiori cariche dell’Enryakuji alle dimissioni.

Scendo impiegandoci circa la metà del tempo. I sentieri, a volte sabbiosi a volte di pietra, sono ben segnalati e facili da percorrere, soprattutto se non si fa caso alla propria condizione fisica, facendo tacere ogni bisogno corporeo ed umano. Sono diventato molto bravo in questo, nel corso di questi anni.

Avvolta dalla natura rigogliosa e verdissima, protetto dal sole rabbioso, senza rendermene conto sono di nuovo al livello del lago, e la mia prossima tappa è a qualche metro a sinistra di dove sono salito: l’Hiyoshi Taisha (日吉大社). E’ il tempio centrale di quello che è il settimo network di templi in Giappone per distribuzione (Hiyoshi, appunto) ed è la dimora di Okunikushi, una delle divinità più importanti dello shinto. Il tempio, anch’esso avvolto dalla vegetazione rigogliosa, si estende per 400,000 metri quadrati includendo al suo interno numerosi edifici, alcuni dei quali (come il Nishi Hongu e l’Higashi Hongu) sono designati come tesori nazionali.

Il tempio viene nominato per la prima volta nel Kojiki, intorno all’VIII secolo.
Il tempio assume importanza poco dopo la fondazione dell’Enryakuji in quanto la capitale viene spostata a Kyoto, facendo diventare i due templi una sorta di guardiani silenziosi della città oltre le montagne, sul loro picco più sacro. Nell’era Heian, come successo al Taga Taisha, il tempio diventa parte del patronato dell’imperatore. Conseguentemente all’assalto ordinato da Nobunaga, il tempio viene ricostruito nel 1597 grazie allo shogunato Tokugawa, fin quando, nel 1868, in conformità con le nuove regolamentazioni della Restorazione Meiji, il tempio perde ogni connessione con il Buddhismo, e diventa Kanpei-taisha (寛平退社), tempio imperiale di primo livello, livello che ricopre tutt’oggi.

Il torii più interno, il terzo

Palco simile a quello per il Noh, ma sul quale si svolgono funzioni shinto. Più dietro, la Main Hall.
Sentieri nascosti, eppure ben visibili

Dopo una breve salita, sulla sinistra, trovo un altro tempio meraviglioso, il Saikyoji (西教寺, lett. Tempio dell’insegnamento dell’Ovest). Il tempio viene costruito dal principice Shotoku, ed è un altro dei templi cardine della dottrina Tendai.
Il tempio viene conservato per secoli dalla famiglia Akechi, che trova riposo nelle colline dietro il tempio. Le architetture in stile Fushimi-Momoyama e i furii appesi a connettere le varie parti del tempio, costruito interamente in zelkova giapponese, rendono il tempio molto piacevole da visitare, carico di un’aura propria, leggermente meno invadente di quella dell’Enryakuji, ma sempre densa di una sensazione congiunta di straniamento e pace.

Viale d’ingresso al Saikyoji
Parte visitabile posteriore al tempio. In questa sezione vi sono 5 stanze separate da porte di legno scorrevoli con dipinti simili a quello che vedete in foto
Giardino dry nella parte più interna del Saikyoji

Scendo, scendo ancora. Rispetto alla giornata precedente, il sole oggi è più intenso, c’è meno umido, e si sente.
Per rimanere all’interno della schedule, taglio ogni curva che posso, rosicchiando minuti preziosi, ma anche stancandomi più velocemente. Eppure, come solito, come sempre è stato, non potrei essere più appagato. Beh, sì, potrei, ma se inizio a parlare di solitudine e donne, anche in questo caso, servirebbe qualche articolo a parte. Mi concentro, quindi, sulla strada, e sul passato che non temo, che non fa male.

È ora però di cambiare città. Dopo un’altra ora di viaggio per le strade interne che scendono verso sud, arrivo alla città di Ōtsu (大津), uno degli snodi più importanti del lago Biwa, sia nel passato (Otsu è considerata “città storica”) sia nel presente (in quanto dalla sua stazione, in 10 minuti con treno locale, si raggiunge la stazione di Kyoto).

Mentre mi dirigo verso la mia prossima tappa, incontro alcune rovine appartenenti al castello che una volta dominava la vallata di Otsu. Oggi, a parte qualche resto delle mura e i segni di dove un tempo poggiavano alcuni dei pilastri di legno, solo una stele di pietra ricorda l’esistenza di questa struttura.
Non appena la strada si apre, il primo Torii dell’Omi Jingu (近江神宮) svetta grigio tra la ghiaia ed i pini. Omi è il vecchio nome della provincia di Shiga, e questo vi fa capire che siamo di fronte ad uno dei templi più importanti per la storia della provincia.
Costruito nel 1940, è dedicato all’imperatore Tenji (626-671), ed è conosciuto come “il tempio dell’orologio”, in quanto l’imperatore Tenji fu il primo a credere nell’idea del rokoku, un sistema di misurazione su un sistema ad acqua.
Questo risultato viene ricordato anche nei precinti del tempio, dove si può vedere una statua di una meridiana vicino ad una piccola cascata. Il tempio, anche grazie al sole cocente, brilla di un rosso intenso, mostrando la bellezza delle costruzioni Omi-zukuri, lo stile particolare usato per il tempio. Il tempio, essendo un Jingu, ricalca come layout quello del Meiji, con vari edifici (torii, romon, kaguraden) prima della struttura principale, formata dal gehainden, naihaiden, e l’Honden, il punto più interno e più sacro del tempio. Il tempio ospita circa 50 festival lungo tutta la durata dell’anno.

Il secondo torii
Il maestoso Romon che introduce agli spazi aperti dell’Ōmi Shrine
Il tempio principale, fotografabile fintanto che si rimane fuori o sulle scale
Ho aspettato immobile, ovviamente, che la miko fosse all’interno dell’inquadratura…

Torno verso la stazione, ma faccio solo finta di ritornare indietro. Mentre chiamo mia mamma per ricordarle che sono vivo e per chiedere informazione sul matrimonio di mio zio al quale, per ovvi motivi, sono stato l’unico assente, entro nell’ultimo grande tesoro della giornata: l’Onjo-ji conosciuto anche come Miidera (三井寺).
Anch’esso casa di monaci della setta Tendai, è uno dei quattro templi più grandi del Giappone, per estensione dei suoi precinti, che comprendono 40 edifici.
Il tempio, oggi dedicato a Maitreya Buddha, nasce nel 672, dopo una disputa per l’ascensione al trono del crisantemo. L’imperatore Tenji muore e sale al potere Tenmu, che fonda l’Onjo-ji in memoria di suo fratello, morto perché ucciso dal fratello del defunto Tenji.
Dopo 3 secoli il tempio viene ribattezzato Miidera (tempio dei tre pozzi) per via delle usanze legate alle abluzioni sacre per i rituali di benedizione, soprattutto dei neonati. Ancora oggi, il Kondo, la sala principale, ospita al suo interno una sorgente sacra. Una volta che l’Enryakuji crebbe in potere, il Miidera si separò gradualmente, andando a creare due sotto-sette della stessa Tendai, denominate Sanmon e Jimon.
Una rivalità non proprio pacificia. Nel X secolo infatti vi furono varie uccisioni tra i componenti delle due sotto-sette. I due templi rimangono intrecciati anche nella guerra Genpei, sostenendo due diversi pretendenti al trono, ed anche nel periodo Sengoku i due templi si scambiano a vicenda vendette, torti ed incendi, finchè, dopo il 1597, si raggiunge una tregua che, per fortuna, regge ancora oggi.

Questa è la prima volta che posso entrare nell’archivio di un tempio. I loculi che vedete sono cassetti di carta di riso, dentro i quali vi è il tesoro più grande: testi sacri.

Mentre salgo sul treno che mi porta verso Kyoto, per curiosità sbircio su Samsung Health la quantità di chilometri della giornata. 42. Dallo stridere dei muscoli delle gambe avrei dovuto intuirlo.

Il mio passaggio a Kyoto è rapido ma talmente vicino che quasi mi sembra di poter toccare il Kiyomizudera solo allungando le dita. Kyoto mi manca molto. Culla di ricordi e sensazioni preziose dal punto di vista umano e storico, credo di esserne attirato come se non vi fossi mai stato. Esco dalla stazione un attimo, prima del mio treno, per fotografare la Kyoto Tower. Il viaggio a Shiga, tra le rive del Biwa, mi ha ricordato in modo ancora più netto, come se ce ne fosse bisogno, quanto sia fondamentale per il Simone di adesso viaggiare, di mente e di corpo, anche a costo di qualche chilometro di troppo…

Nuvole e serpenti (o carpe)