Nokogiriyama d’Inferno e Ritorno

Di Simone Arcigni

Non credo più di riuscire a vivere un weekend di riposo (tra l’altro allungato dal Sports Day che si terrà lunedì 9 ottobre) in maniera normale.

Quando i miei colleghi mi hanno chiesto cosa avrei fatto, al solo pensiero di dire “rimanere a casa”, sono stato male. Continuo a credere che l’unico modo per stare tranquillo sia effettivamente quello di avere qualcuno al mio fianco che controbilanci i miei estremi con un po’ di sana (si spera romantica e passionale) sedentarietà. Ma per ora, come potete immaginare, quel qualcuno ancora non c’è, e quindi avrete già forse intuito che non vi sto scrivendo da casa, bensì mentre sono in viaggio.

La tappa di questo sabato appena trascorso è molto più vicina delle altre, ma per la particolarità del luogo, essendo nelle zone meno collegate dalle linee ferroviarie, ci ho impiegato 3 ore (one way) per raggiungerla.

Parto da casa alle 5 e 30, senza aver quasi dormito. O meglio, sono riuscito a chiudere gli occhi per più di mezzora senza svegliarmi per poi però svegliarmi. Moltiplicate questi passaggi per due o tre volte ed avrete la descrizione temporale e qualitativa del mio sonno degli ultimi 7 mesi. Ancora non capisco come faccia a mantenere questo ritmo.

Mentre il treno che mi porterà verso Tokyo, poi fino a Chiba, sfreccia tra le campagne ancora immerse in un sacro silenzio, io lascio che la dolce musica di sottofondo nelle mie orecchie mi rilassi quel tanto che basta da evitare di pensare alle pene del cuore.

Una volta che però le nuvole si sono diradate ed il sole inizia ad affacciarsi sul mondo, quando ormai sono le 9, sono costretto a spogliarmi di qualsiasi armatura antropica, sulle soglie della stazione di Hama-Kanaya (浜金谷駅).

Da ora, saremo solo io, molte sorprese, molto verde ed anche un buon quantitativo di gradini.

Dalla stazione di Hama-Kanaya vi sono due modi per raggiungere il luogo in cui sto andando: attraverso una seggiovia che taglia il Monte Nokogiri (鋸山, lett. Montagna della sega) nel mezzo, oppure a piedi, passandoci all’esterno, in tunnel poco illuminati e senza marciapiedi (perché le persone normali prenderebbero la seggiovia).

Nella mia immensa compassione, insulto ridendo tutti coloro che deviano dalla strada principale per prendere la seggiovia, e mi immergo nei giochi di luce e buio dei tunnel scavati nella montagna, il mare della Baia di Tokyo gonfiato dal vento sempre più insistente.

Finalmente, dopo circa 45 minuti, un cartello mi indica che l’ingresso è vicino, il Nihonji (日本寺) è a solo pochi gradini da dove mi trovo. Vengo accolto inaspettatamente da un Niomon bruno-rosso immerso già nel verde della montagna, ed ancora più inaspettatamente da un giardiniere che, interrompendo le sue attività, si avvicina e mi chiede se voglio entrare.

Rispondo affermativamente, pronto con il portafoglio in mano, e scopro che non solo quest’uomo fa il manutentore di questa zona ma anche da biglietteria ambulante. Si dimostra, nonostante l’essere indaffarato, molto gentile. Ci fermiamo a parlare della mappa, ascolto i suoi consigli su come intraprendere le salite, mettendomi in guardia sulla difficoltà del sentiero.

Lo saluto, scettico (sapete che i giapponesi tendono a esagerare tutte le sensazioni fisiche e morali, escludendo l’amore ovviamente), e sparisco nel verde che inizia prepotente a prendere il sopravvento sulla tavolozza dei colori.

Nonostante mi aspettassi una salita più brulla, meno curata, sono piacevolmente sorpreso di incontrare un sentiero ben tenuto, interamente di gradini di pietra.

Passato un tempio Inari (Kenkoinari 乾坤稲荷) ed un Kannon-do (大黒堂, Daikoku-do), che ospita con una riproduzione in legno dei Juunishinsho (十二神将), compio l’ultima leggera rampa di scale verso quella che sembra uno spazio aperto sulla collina.

Sulla destra, la calma imponente, lo zelo sacro del colossale Daibutsu (大仏) in pietra mi lascia senza parole. Ed è a questo punto che credo sia arrivato il momento, seduto sotto una tettoia di legno all’ombra della statua, di parlarvi del luogo del viaggio di oggi: il Nihon-ji.

Questo tempio buddhista si trova sulla parte occidentale del monte Nokogiri, che a sua volta si sviluppa su tre province nella prefettura di Chiba, dalla parte opposta della baia di Tokyo.

La zona ha due storie separate che però si intrecciano. Una riguarda il tempio e l’altra riguarda la montagna stessa. Visto che la storia che avvolge la montagna è più visibile sul lato opposto, quello orientale, ora vi parlerò della storia del tempio.

Costruito nel 725, dall’imperatore Shomu, nel periodo Nara, fu affidato a Gyoki (668-749), il primo monaco che il tempio abbia mai conosciuto ed ancora oggi si pensa sia l’unico tempio a poter essere definito chokugansho, ovvero edificato per ordine diretto dell’imperatore.

In quel periodo il tempio era composto da 19 edifici ed abitato da 100 monaci. Nell’857, dopo un viaggio del monaco Ennin, il tempio passa dalla setta Hosso a quella Tendai. Il tempio però cade in rovina fino al 1181, quando il neo Shogun Yoritomo decide di costruire altre statue e lecture hall sulle pendici della montagna.

Purtroppo però gli sforzi non durano molto. Nel 1331 la maggior parte degli edifici viene distrutta da un incendio e nonostante nel 1345 si provi di nuovo a ricostruirli, il periodo Sengoku e i suoi continui conflitti rendono arduo il compimento di questo buon proposito. Durante il periodo Momoyama, il clan Satomi prende il Nihonji sotto la sua protezione, trasferendolo nel 1647 dalla setta Tendai alla Setta Soto.

Nel 1774 vi è la svolta, sotto lo shogunato Tokugawa. Il priore Guden santifica il monte Nokogiri donando al tempio e all’intera area un’aura mistica che prima mancava. Il Daibutsu, dove sono ora, la parte forse più famosa dei complessi del tempio, e le Rakan Arhat statue che pervadono i sentieri intorno ad esso, vengono costruite proprio in seguito alla decisione di Guden.

Immagine che è diventata di diritto il mio savescreen. La sensazione di pace e di calma nonché di superiorità è assoluta e chiaramente percepibile.
Il Daibutsu è enorme. Alto 31 metri (il doppio in più del Grande Buddha di Nara al Todaiji e del Buddha di Kamakura al Kotokuin) raffigura Yakushi Nyorai, Buddha della guarigione spirituale e fisica.

Nel periodo cosiddetto “della distruzione di Buddha”, il Haibutsu kishaku (廃仏毀釈), dopo la Restorazione Meiji, il tempio affronta gli ultimi e pesantissimi scempi. Le hall vengono distrutte e le migliaia di rappresentazioni dei Bodhi decapitate. Nel 1939 anche un terremoto infierisce sul tempio, scatenando un incendio che rade al suolo ciò che rimaneva degli edifici del Nihonji.

Nel 1989, viene regalato al tempio un Bodhi tree dal vice presidente dell’India, come gesto di fratellanza religiosa e spirituale tra le due nazioni, incarnato soprattutto dallo spirito del Nihonji.

Nel 2007 e nel 2009  si è ripreso a costruire, o meglio, distruggere per migliorare, e tuttoggi, anche se non me lo sarei mai immaginato, la meta è diventata molto più turistica del previsto, attraendo non solo giapponese ma anche coreani, cinesi e qualche sparuto caucasico (tra cui il sottoscritto).

Avendo letto questa storia, tra i pannelli introduttivi, mi addentro nella montagna ed i suoi comodi scalini. Ciò che quindi vado a esplorare non è un tempio come lo si può immaginare. È più un luogo sacro che segue i confini della montagna e che sviluppa la sua forza spirituale dalla montagna stessa. Non troverete edifici; sono le insenature nella vegetazione ad essere dimora di tutte le statue (più di 2000) disseminate per le pendici orientali del Nokogiri.

Una delle statue meglio conservate. Impossibile avvicinarsi oltre…

Ad ogni diramazione, la strada conduce in un luogo segreto, diverso dal precedente, immerso nell’ombra e nell’altitudine, nella storia e nel silenzio, interrotto soltanto dai tanti bambini curiosi che affrontano coraggiosi l’ascesa.

Noto però che l’atmosfera si incupisce a volte da una sensazione più orrifica nel vedere le teste mozzate, ma non tanto perché sono mozzate ma perché nel tentativo di sistemarle, le teste sono state messe sui busti senza preoccuparsi di forme e colori delle due parti, andando a creare degli spettacoli da circo degli orrori, una sorta di mistico orrore, di sacralità temuta, riacquistata e perduta.

Una volta usciti dalla coltre di statue e di roccia, vi è uno spiazzo (adibito alla discesa di chi decide di salire con la seggiovia) e poi due sentieri. Prendo quello che mi è di fronte, e continuo la salita finché non raggiungo il Jusshu Ichiran Observatory, un punto panoramico sulla zona di Chiba e, di conseguenza, con visuale fino a Tokyo, Yokohama ed Hakone.

Il puntino bianco è la Tokyowan Daikannon, una statua del Kannon Buddha di 30 metri, completamente bianca.

Nel cambiare sentiero, la folla si fa più intensa, andando a rompere (bene più delle statue malmesse dei Buddha) l’atmosfera del luogo. I giapponesi che mi sono affianco, di ogni età, sanno dire solo 3 parole: すごい (sugoi, fantastico, incredibile), きつい (kitsui, complicato, difficile, faticoso) o una combinazione delle due (すごいきつい, estremamente difficoltoso). In una delle scalate più semplici (perché con molti aiuti e con poco sterrato), mi vedo giapponesi morenti col fiatone a lato della salita. E mi sale il nervoso. Atavico, al limite dell’odio razziale. Non sopporto quando come automi ripetono le stesse parole, soprattutto in un momento in cui non ne vedo il bisogno. E fa riflettere come l’unica lamentela della giornata siano alcuni comportamenti degli umani che mi circondano. Se non ci fossimo…

Con questi pensieri continuo la scalata fino ad arrivare al Jikoku Nozoki, (地獄のぞき), lett. “La vista dell’Inferno”, uno strapiombo tra il verde e le rocce, il punto naturalistico forse più famoso dell’intera Nokogiriyama.

Scendo dal picco, torno verso la foresta, ma non per molto. Le ali della montagna si aprono in mezzo al nuovo sentiero rivelando un’altra meraviglia: una raffigurazione del Buddha Kannon (della misericordia) scolpita nella pietra, la stessa pietra che sarà protagonista della seconda parte della scalata, quella a ovest. Anch’essa alta più di 30 metri, sembra essere stata scolpora più recentemente rispetto al Buddha dalla parte opposta, ma non si sa una data precisa. Indipendentemente dall’età dell’incisione, continuo a meravigliarsi di come un luogo così fosse a pochi passi da casa…

Tunnel di avvicinamento al Kannon. Come potete vedere sui lati, vi sono netti segni di intervento umano.
I 30,3 metri del Kannon Buddha e la sua dimora nella montagna…

Una volta ammirata la statua, la montagna si fa meno “umana”, spariscono i gradini di pietra, e si inizia una vera e propria seconda esperienza storica, attraverso i sentieri che tra il 1868 e il 1926 sono stati le vene di trasporto per i massi (boshu ishi) che provenivano dalla miniera proprio dietro il Nihonji, sul lato opposto.

Durante le numerose salite e discese, si può vedere come la montagna sia stata modellata in modo da servire lo scopo della costruzione e dell’innovazione. Gli angoli retti nei crostoni sotto la montagna, i segni degli scavi sulle parti più alte, i sentieri praticati dalle donne (shakiri) per trasportare fino a 240kg di pietre a valle per volta, i vecchi macchinari arrugginati usati per intagliare e trasportare i blocchi di boshu… Ogni dettaglio racconta la storia, un’altra storia, condivisa con le statue sacre della parte occidentale del monte Nokogiri, se vogliono “modellate” anch’esse dal ritmo di un tempo che passa e che cambia inesorabile.

Jigoku Nozoki dal basso
Più difficile, ma non difficile
Macchinari (Toyota) per la lavorazione dei blocchi di pietra
Quasi da set di “Alien”…
La parte della montagna scavata che vediamo in “superficie” è solo un piccolo esempio di quanto invece si sia scavato in profondità…

E anche in questa parte, come nella precedente, i punti di interesse storico sono moltissimi, ma non mancano anche punti di osservazione magnifici sull’intera baia di Tokyo. Dalla cima del Nokogiri infatti si può vedere fino ad Hakone, e nei giorni più limpidi, anche il Fuji (sapete già che, per una regola non scritta di molti anni fa, a me non è stao concesso il permesso di vedere il Fuji a meno che non ci sia praticamente sotto, unica volta in cui effettivamente sono riuscito a vederlo).

Zona di Motona, sud di Chiba

Una volta uscito dalla foresta, stordito di meraviglia grezza e bellezza mistica, altri 15 minuti di asfalto mi connettono a quello che era stato il mio punto di partenza, dove molte altre persone attendono il treno di ritorno per Chiba e Tokyo. Mi accodo alla fila, musica leggera nelle orecchie, godendomi i raggi del sole di ottobre, un impegnatissimo ottobre pieno di possibilità per brillare…

Shakirimichi, le parti più visibili e meglio conservate di quello che una volta era uno dei sentieri percorsi dalle shakiri per trasportare a valle la pietra scavata
La stazione che mi ha accolto, Hama-Kanaya

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