L’Ultimo Strappo, l’Ultima Cucitura (Parte III): I Giganti di Oita

Ciò che mi colpisce per primo di Oita (大分) è, a malincuore, la pioggia. Dopo un anno intero di giornate splendide, oggi mi tocca nuotare di gambe tra il grigio dell’alto e quello che sostiene i miei passi.

Ma una volta che il terzo Shinkansen (in 3 giorni) continua la sua corsa verso Kokura e Hakata lasciandomi indietro, dipende da me riuscire a scoprire la città ben oltre il suo grigio colore mattutino e sperare che il meteo rischiari nel corso della giornata.

Armato di mantellina quindi, con lo sguardo di un Godzilla alto qualche metro al di fuori della stazione che celebra l’uscita di Godzilla – 1.0, il primo gigante di Oita, inizio ad esplorare quella che di fatto è l’ultima prefettura rimasta, l’ultimo tassello di questa mia piccola grande sfida…

La prima tappa della prefettura è il Museo d’arte della stessa (OPAM), sia perché strategicamente è la visita più comoda sia per vedere di far passare al riparo le nuvole sopra di me.

Il museo si sviluppa su ben 4 piani, di cui uno (il piano terra) interamente adibito a reception e sculture, ed il secondo interamente adibito a cafè, ristoranti ed aule interattive. Gli altri piani contengono a rotazione le varie mostre. Quella che riesco a vedere io, al quarto piano, è quella permanente, dedicata agli artisti della prefettura ed anche una speciale, intitolata “Adoration of Bamboo”. Dovete sapere infatti che la prefettura è una delle più famose per quanto riguarda l’oggettistica e la lavorazione del Bamboo.

Assisto anche ad una mostra speciale dedicata ai piccoli artisti della prefettura (dalle scuole medie alle superiori) e rimango folgorato dal livello di immaginazione e tecnica mostrata nei lavori esposti. Uno in particolare attira la mia attenzione. Raffigura una bambina, di spalle, il corpo vestito di chiaro, lo sfondo pure, mentre accovacciata su un tavolo fa i compiti. La schiena ha un buco nel mezzo. Dalla bocca che non vediamo esce una frase sospesa: もう死んじゃうのにね (Mou shinjau noni ne), lett. “Nonostante tutto, sto/stiamo già morendo, sono/siamo già morto/i, vero?”. Controllo i dati dell’artista. Si chiama Eriko. Ha 14 anni.

Scosso, esco per dirigermi verso il Kasuga Jinja (春日神社), uno dei santuari più antichi della prefettura, pieno periodo Heian. Risalente al IX secolo, il tempio acquista importanza dopo che viene diffusa la leggenda che il Shisho Okami (divinità shintoista che accoglie al suo interno più divinità con questo nome) viene “passata” tramite il rituale della divisione delle anime dal Kasuga Taisha di Nara, l’head temple dei Kasuga.

L’edificio principale del santuario fu ricostruito nel 1962 come parte del progetto di recupero dei danni di guerra, seguito dalla costruzione di un nuovo “mon” e di un grande cancello torii, e man mano che la città di Oita si sviluppò come una nuova città industriale, il numero di fedeli aumentò gradualmente.

Colori talmente intensi che trascendono il meteo

Addentrandomi nella città arrivo al Funai Castle Ruins, nel quale entro dall’unico ponte dei 4 rimasti.

Il castello di Funai (1562) di cui oggi rimangono solo alcune mura e yagura, è fortemente associato ad Otomo Sorin, così come il vicino castello di Usuki. Gli Otomo erano un potente clan del Kyushu che durante la prima metà del XVI secolo espanse gradualmente il proprio controllo sui vicini daimyo. Quando Otomo Sorin divenne il 21esimo Daimyo Otomo nel 1550, continuò ad espandere il territorio Otomo e alla fine la famiglia fu conosciuta come i “Signori delle Sette Province” (del Kyushu). Ma dopo aver sottovalutato gli Shimazu (di Kagoshima), consentendo loro varie vittorie, Otomo Sorin si ritirò nel castello di Funai nel 1586 e chiese aiuto a Hideyoshi. Hideyoshi arrivò un anno più tardi ma non prima che gli Shimazu avessero preso il castello di Funai. Hideyoshi e i suoi alleati, inclusi gli Otomo, sconfissero gli Shimazu.

Successivamente, nel 1600, Funai fu confiscato al figlio di Sorin, Yoshimune, per un atto di codardia durante la campagna di Corea, e donato a Takenaka Shigetoshi.

Alcune delle difficoltà incontrate da Otomo Sorin possono essere attribuite al suo abbraccio al cristianesimo che causò problemi con i suoi stessi vassalli. Sorin fu uno dei pochi signori giapponesi che incontrò effettivamente Francesco Saverio, che si era fermato a Funai mentre andava da Kagoshima a Yamaguchi. Xavier dovette chiedere il permesso a Sorin per incontrare alcune navi portoghesi, e Sorin era interessato a costruire un rapporto con i potenti stranieri. Sorin alla fine divenne lui stesso cristiano nel 1568, dopo aver precedentemente battezzato suo figlio.
Non si sa con certezza quanta convinzione spinse la sua conversione né quanta astuzia politica. Navi da guerra portoghesi aiutarono Sorin nella battaglia di Moji e lui, insieme ad altri due daimyo cristiani, inviò una delegazione in Europa nel 1582, che incontrò vari capi di Stato, Papa compreso. Nonostante le “buone” intenzioni di Sorin, molti dei cristiani non lo riparagarono con la stessa moneta, distruggendo nell’area di Oita molti templi e santuari.

Una delle yagura rimaste, come sempre in contrapposizione con il tempo che avanza, alle sue spalle

Vedendo le mura del castello non posso non pensare (e parlarne quindi) di 進撃の巨人 (Shingeki no Kyoujin, l’Attacco dei Giganti), manga (e poi anime) di enorme successo scritto dal mangaka Hajime Isayama, nativo di Hida, una città della prefettura di Oita, la quale oggi è addobbadata con le statue dei personaggi principali del manga. Una parte di me, ancor prima di partire, ha sempre collegato l’idea di Oita come patria di giganti. Una volta scoperta, credo di averne trovati addirittura di nuovi…

Mentre continuo il mio sognare ad occhi aperti, passo attraverso l’Heiwa City Park (平和公園), un parco sopraelevato che funge da verde svago, soprattutto oggi che vi è grigio un po’ ovunque. Come molti parchi, anche questo è dedicato all’auspicio di pace (平和, pace) ed il primo punto in cui gli ultimi giganti di Oita si possono vedere. Ma ne parleremo più tardi.

Dal parco salgo un poco finchè non entro in una parte di foresta bruna e umida. Sbuco, dopo viscidi gradini di muschio, nell’asfalto dell’Oita Gokoku Jinja (大分県護国神社), uno dei Gokoku più importanti di tutta la nazione, visitato più volte in passato (1962, 1966, 2017) dalla famiglia imperiale. Costruito nel 1898, come spesso capita, per i defunti di una guerra soltanto, diverrà testimone di troppe altre, andando a contare più di 44.000 “pilastri” sotto la sua protezione. L’edificio principale, silente e maestoso, dietro il torii bianco circondato da scalinate che sbucano dalla vegetazione della collina circostante, è stato completato nel 1945.

Oltre il torii bianco principale, gli ultimi giganti di Oita, dalla piccola terrazza al di fuori del tempio, mi appaiono chiaramente per la seconda volta. Non sono i giganti di Iseyama, non sono le statue di Godzilla fuori dalla stazione. Colonne di cemento delle industrie siderurgiche più importanti della nazione che fumano progresso nelle nuvole plumbee, che spiazzano e spezzano la vista prima del mare. Sono questi giganti i motori dello sviluppo industriale e sociale di Oita.

Una volta tornato verso l’asfalto mi aspetta un trittico di templi. Per primo l’Hiedainari Shrine (稗田稲荷神社), un piccolo Inari imcastonato tra i saliscendi della zona. Il rosso dei torii si esalta nell’umida aria dell’ultimo ottobre, i kanji neri sui pilastri quasi brillano, come a cercare abbondanza, quell’abbondanza di raccolto tanto venerata tra i suoi stessi precinti per secoli, soprattutto in giorni come questo.

Di seguito mi sposto all’Oitasha (大分社). Le divinità consacrate nel tempio sono Oita no Kimi no Chikomi e Tomonbetsu no Mikoto (figlio dell’imperatore Keiko), che si dice sia il fondatore del clan Oita, clan che dà il nome alla prefettura. Si pensa che il tempio sia stato costruito per onorare la morte e le imprese militari di un generale di nome Wakaomi durante la guerra Jinshin (672, il primo anno dell’imperatore Tenmu).

Nell’869 fu spostato nella sua posizione attuale. Fu venerato dal clan Otomo, e fu designato come Ichinomiya della prefettura nel XVI secolo. Nel recinto rimane una pagoda di pietra dedicata al clan Otomo (1365). Dopo un incendio (quasi mi mancavano) fu ricostuito nel 1657, periodo del quale mantiene le caratteristiche architettoniche ancora oggi.

Il particolare doppio torii dell’Oitasha visto dall’interno del tempio
Vi chiederete: perché Simone ha fotografato un palo della luce e una recinzione? Se guardate oltre vedrete dei loculi. Quelli sono resti di antiche sepolture nella roccia risalenti ben prima degli Otomo. Il problema? Vedete quelle due linee rosse vicino ai loculi? Sono studenti. Minorenni. L’unico modo per osservare i loculi da vicino è infatti entrare nei precinti della scuola. Ecco la risposta alla prima domanda di questa didascalia.

Come ultimo visito il Manjuji (万寿寺), appartenente alla setta Rinzai, costruito da Sadachika Otomo, quinta generazione della famiglia Otomo come luogo di ritrovo per i monaci dell’intera prefettura. La costruzione inizia nel 1306 e terminata qualche anno più tardi. È riconosciuto come uno dei Tenka Jissatsu (天下十刹), 10 grandi templi edificati nella prefettura durante il periodo Kamakura ed ancora oggi è centro culturale e di studio/esercizio per molti monaci. Distrutto più volte da vari incendi, viene ricostruito per l’ultima volta nel 1633.

Per sensazioni e colori, uno dei templi più belli e meglio tenuti di tutta la città

Percorro una delle vene principali che dall’esterno della città mi riporta verso il suo centro. In un moto entropico, anche la pioggia smette di cadere, lasciandomi quindi libero di liberarmi della mantellina fradicia.

L’ultima tappa della città sono le rovine dell’Old Otomo Residence, che consiste nei resti all’aria aperta, in attesa di un ulteriore Restaurazione, dell’antica residenza utilizzata dalla famiglia Otomo durante gli anni di regno, dall’epoca Sengoku a quella Meiji (la residenza sembra essere stata ricostruita nel XVI secolo). Gli scavi hanno riportato alla luce la residenza (contribuendo anche alla costruzione del giardino adiacente) nel 1998 e proseguiti nuovamente nel 2016.

Arrivo in albergo, nelle zone adiacenti alla stazione, quando ancora il sole brilla di vivo arancione, un colore accentuato dalla pioggia caduta leggera per quasi tutta la giornata. Ma noi siamo abituati perfino alla neve e sorridiamo. Anche se non è mai esistito un vero noi. È l’illusione di essere giganti. È l’adrenalina dell’ultima battaglia…

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